Page 68 - Storia della Russia
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rurale che le circondava. I rappresentanti del clero «bianco» sposato vivevano nelle
parrocchie di appartenenza e per i loro servigi ricevevano terre e denaro, ma non erano
molto più agiati dei contadini che assistevano. A quell’epoca l’ingresso nel clero
parrocchiale era aperto a tutti e nella selezione dei sacerdoti avevano voce in capitolo le
congregazioni, anche se le famiglie ecclesiastiche erano sempre più imparentate fra loro;
nel XVIII secolo il clero «bianco» divenne a tutti gli effetti una casta ereditaria chiusa.
La stragrande maggioranza della popolazione, ben oltre l’80-90%, era formata da
contadini. Nel 1719 arrivavano a circa 11,45 milioni (dagli 8,6 milioni del 1678). Di
questi, 6,39 milioni (il 55,8%) lavoravano per i latifondisti ed erano veri e propri servi
della gleba; 1,58 milioni (il 13,8%) lavoravano per i monasteri, e 1,01 milioni (8,9%) per
la corte, vivendo su proprietà che rifornivano la famiglia imperiale. Quasi tutto il resto
della popolazione contadina (2,46 milioni, il 21,5%) era formata da semplici contribuenti
(«aratori neri»), che sotto Pietro I vennero ribattezzati «contadini di stato»: vivevano su
terreni statali e pagavano le tasse direttamente al governo. (Nei due secoli successivi
queste proporzioni cambieranno: nel 1857 i contadini di stato formeranno il 47% del
totale, e i servi e gli altri contadini dipendenti il restante 53%.) Al gradino più basso della
società stavano gli schiavi (cholopy), che nel 1678 rappresentavano circa il 2% della
popolazione ed erano impiegati in una vasta gamma di mestieri sotto le dirette dipendenze
del loro padrone.
Tuttavia, non si trattò mai di suddivisioni rigide: la società rigorosamente stratificata
prevista dalla legislazione zarista era, in effetti, una realtà molto più fluida. Le vere
occupazioni non rispecchiavano sempre lo status ufficiale di chi le svolgeva, i confini
sociali erano labili, a volte si dissolvevano, e i «raminghi» senza fissa dimora in giro per le
strade erano numerosi: mendicanti e vagabondi, servi fuggitivi, monaci itineranti,
pellegrini e venditori ambulanti, menestrelli e saltimbanchi (skomorochi). Le frontiere, in
particolare al sud, erano un crogiolo sociale dove le distinzioni tra le differenti
«condizioni» e «stati» venivano spesso ignorate o distorte. Sebbene i maggiori eserciti
cosacchi occupassero territori propri, molti loro rappresentanti militavano anche nelle
truppe di difesa ai confini, dove le necessità militari e la mancanza di controllo
permettevano a persone di qualsiasi classe sociale di trovare un lavoro. Inoltre, con la
crescita dell’impero, il cuore della Grande Russia si trovò circondato da un miscuglio di
gruppi etnici, nell’estremo nord e a est in Siberia, lungo il Volga fino alle steppe e al
Caucaso settentrionale, con una mescolanza di altri europei a ovest, nei territori
conquistati. Anche la situazione religiosa era complessa: l’ortodossia si avvicendava con
Islam, Buddismo, Animismo e, a ovest, con Ebraismo, Luteranesimo, Cattolicesimo.
Questa situazione complessa si fece ancora più intricata con l’ulteriore espansione della
Moscovia nel XVII secolo.
Se si esclude un fallito attacco scagliato per vendetta contro la Polonia nella Guerra di
Smolensk (1633-1635), all’inizio Mosca rimase in pace. Non partecipò alla Guerra dei
trent’anni (1618-1648), da cui la Svezia uscì come potenza dominante, ed evitò di farsi
coinvolgere a sud dagli ottomani e dai loro vassalli di Crimea. Nel 1635 il governo riprese
una politica tradizionale di successo: costruì un grande sistema di difesa a sud, la linea di
Belgorod, ottocento chilometri di palizzate e fossati costellati di fortificazioni, che fu
armata con gruppi eterogenei di servitori minori, mercenari cosacchi e forze regolari
inviate dal centro. Essa si rivelò estremamente efficace: protesse il cuore del paese dalla