Page 218 - Storia della Russia
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La Grande guerra patriottica
Dopo aver sconfitto la Francia, a metà del 1940, Hitler cominciò a progettare un attacco
all’Urss. Con un’ampia invasione, voleva trasformare la zona fino a una linea compresa
tra Astrachan’ e Archangel’sk in una satrapia tedesca, spingendo verso est, oltre gli Urali,
la popolazione sovietica rimasta. Stalin, invece, si cullava ossessivamente nell’illusione
che per il momento il patto del 1939 gli avrebbe risparmiato l’aggressione tedesca;
nonostante il fallimento dei negoziati successivi e i ripetuti avvertimenti dei servizi
segreti, il dittatore si rifiutò di credere al pericolo imminente. Quando l’invasione lampo
colpì con un attacco a tridente il 22 giugno 1941, l’esercito sovietico fu colto del tutto alla
sprovvista. I tedeschi conquistarono una schiacciante superiorità sia nelle forze di aria sia
in quelle di terra, e fecero un’enorme quantità di prigionieri; gli errori tattici dei russi
causarono, inoltre, enormi perdite sul campo. In settembre il gruppo Nord dell’esercito
tedesco aveva circondato Leningrado, che resistette a un tremendo assedio di novecento
giorni; in novembre il gruppo Sud aveva preso Kiev e occupato l’Ucraina, e il gruppo del
Centro si ritrovava a una ventina di chilometri da Mosca. Il governo e la mummia di Lenin
furono evacuati verso est; Stalin, invece, rimase nella capitale: una scelta simbolica di
grande importanza. Ma Hitler cambiò le sue priorità, mandando le truppe corazzate verso
Leningrado e dirigendo l’avanzata meridionale verso il Caucaso e i bacini petroliferi del
Caspio. Queste manovre, e un rigidissimo e precoce inverno, salvarono Mosca. I sovietici
mantennero così il loro maggiore centro di comando e di comunicazione. Riuscirono
anche a ricostruire l’economia, trasferendo industrie essenziali e operai nell’entroterra del
paese, lontani dal fronte (circa 2600 fabbriche e 25 milioni di lavoratori con le loro
famiglie, un’impresa incredibile); nel febbraio del 1942 la popolazione dell’Unione
Sovietica nel suo complesso fu messa in stato di mobilitazione. Nelle ultime fasi della
guerra l’Urss aveva superato il ritmo di produzione tedesco di materiali e macchine
belliche, raggiungendolo in qualità, mentre i prestiti inglesi e americani garantivano gli
approvvigionamenti: un risultato economico che fu la chiave della vittoria sovietica. Nel
1942 l’avanzata orientale di Hitler fu contrastata, accerchiando a Stalingrado la sua
enorme VI Armata; il 31 gennaio 1943, dopo scontri di inimmaginabile violenza, il
maresciallo von Paulus e i suoi 91.000 uomini rimasti si arresero. Fu il punto di svolta
della guerra, rafforzato poi dal grande scontro fra carri armati, avvenuto in luglio a Kursk,
a nord di Char’kov, «la più grande battaglia schierata in formazione della storia», in cui le
ormai valide truppe corazzate sovietiche distrussero i panzer tedeschi. La campagna di
Hitler si trasformò in un’inesorabile ritirata: le forze sovietiche dilagarono verso ovest e
verso sud in Romania, Bulgaria, Ungheria, Austria e Cecoslovacchia e rioccuparono gli
stati baltici. Nel giugno del 1944 lo sbarco alleato in Normandia aprì il tanto atteso
secondo fronte (impedendo in questo modo anche il completo dominio sovietico
sull’Europa postbellica); il 25 aprile 1945 truppe americane e russe si incontrarono in
Germania sul fiume Elba. I sovietici erano già in marcia verso Berlino: il 30 aprile la
bandiera rossa fu innalzata sopra il Reichstag e Hitler si suicidò. La proclamazione
ufficiale della resa definitiva, cui parteciparono tutte le maggiori forze belligeranti,
avvenne il 9 maggio a Berlino. Il futuro della Germania e dell’Europa fu deciso dai «tre
grandi», Churchill, Stalin e Truman, alla Conferenza di Potsdam del 15 luglio, da cui
emerse il nuovo scenario internazionale, dominato da Stati Uniti e Unione Sovietica. Una
settimana dopo la chiusura della conferenza, l’Urss dichiarò guerra al Giappone,