Page 196 - Storia della Russia
P. 196
o ai lavori forzati. Nella sua forma definitiva il sistema dei campi di lavoro, i gulag, risale
al 1929. Quella di kulak era una definizione vaga. Insieme ad altri «sfruttatori», i kulaki
erano stati identificati, schedati e privati del diritto di voto dalla Costituzione del 1918; ora
la categoria aveva assunto anche valenze politiche oltre che economiche e dipendeva
dall’atteggiamento nei confronti della collettivizzazione. Con il termine onnicomprensivo
podkulačnik (sottokulak, filokulak) si poteva perseguire e accusare chiunque non
collaborasse. I contadini cercarono di prevenire il disastro svendendo le proprietà,
uccidendo e mangiando il bestiame, rifugiandosi nelle città. Alcuni entusiasti sostenitori
della collettivizzazione imposero di mettere in comune persino vestiario e mobilio. In
diverse località l’attivismo ateo prese il sopravvento, dissacrando chiese e arrestando
sacerdoti: molte campane vennero fuse e il loro metallo destinato alla produzione
industriale. Nel giugno del 1930 le comuni dei villaggi furono sciolte e le loro funzioni
trasferite ai soviet e alle fattorie collettive. Tra i contadini girava voce che presto o tardi
anche le donne sarebbero state messe in comune o che l’inevitabile imminente carestia
preannunciasse il Giorno del Giudizio. I villaggi opposero di frequente resistenza,
uccidendo gli incaricati della collettivizzazione; scoppiarono anche rivolte di notevoli
dimensioni, spesso guidate da donne.
Con piccoli incentivi e una brutale repressione, e non senza qualche oscillazione, la
collettivizzazione andò avanti e a metà degli anni Trenta la stragrande maggioranza dei
contadini vi si era uniformata. I problemi di organizzazione e di funzionamento dei
kolchoz (kolchozy, fattorie collettive) furono affrontati e risolti in corso d’opera; dopo un
primo tentativo del 1930, nel 1935 si giunse a uno Statuto del kolchoz modello. Da
principio l’azione violenta del governo portò come conseguenza una produzione di grano
insufficiente a sfamare il paese. Durante la collettivizzazione morirono milioni di
contadini: a causa di collettivi mal organizzati, nelle deportazioni o nei campi di lavoro,
per le carestie che colpirono i territori di frontiera. Proprio al confine, infatti, la
collettivizzazione risultò particolarmente difficile da applicare, incontrò una feroce
opposizione o venne attuata a ritmi impossibili. Tra il 1926 e il 1939 in Kazachstan la
popolazione, ancora in maggioranza nomade, diminuì del 20%, il bestiame fu decimato e
le pecore quasi scomparvero. Nella fertile Ucraina, che oppose una strenua resistenza, nel
1932-1933 le autorità furono deliberatamente complici di una carestia tenuta segreta,
esportando o nascondendo il cibo e impedendo ai contadini disperati di partire. Si
registrarono persino casi di cannibalismo. Le vittime complessive di queste carestie sono
stimate tra i 4 e i 6,5 milioni.
La collettivizzazione mandò in frantumi il vecchio modo di vivere dei contadini e riuscì
ad asservire la campagna alla città e al governo. Nel nuovo settore agricolo furono
introdotti, infine, i sovchoz (sovchozy), grandi fattorie di stato di tipo industriale, e le
«Stazioni di macchine e trattori», gestite dallo stato, che prestavano (e di conseguenza
controllavano) le grandi macchine agricole. La collettivizzazione costrinse i contadini a
una «nuova servitù della gleba». Fino agli anni Settanta a chi lavorava nei kolchoz non era
concesso il passaporto interno, reintrodotto nel 1932, senza il quale per i cittadini sovietici
ogni spostamento era molto difficile. (Il sistema di passaporti zarista era stato abolito nel
1917.) In questo modo la collettivizzazione consolidò lo «stato contadino» sovietico e il
divario tra città e campagna. Inoltre, i suoi obiettivi economici furono raggiunti solo in
parte. Anche prescindendo dalle carestie, sotto certi aspetti fu un vero disastro. Il bestiame