Page 139 - Storia della Russia
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Dalle «grandi riforme» al 1905
La riforma interna: una rivoluzione dall’alto
Nel 1856, dopo il disastro della Crimea, Alessandro II e il governo si resero conto che la
Russia non poteva più restare com’era, e per salvare il trono lo zar concesse
l’emancipazione: la servitù della gleba era il nodo che legava insieme tutti i mali dello
stato. Inoltre, si riconosceva a ogni livello della società il bisogno di cambiamento. Un
ufficiale in visita a San Pietroburgo nel 1857 registrò «un fenomeno sorprendente: tutti
aspirano a una riforma». Le motivazioni e i progetti erano spesso differenti tra loro, e certi
aspetti restano tuttora argomento di dibattito, ma il programma riformatore che prese
forma tra il 1857 e il 1874 portò a una completa modernizzazione delle istituzioni sociali e
governative. Da principio le autorità reagirono alla nuova situazione con misure liberali,
alleggerendo la censura e permettendo la glasnost’, «trasparenza», una limitata libertà di
stampa e di opinioni sulle questioni attinenti alla riforma; nel 1856 fu concessa anche
un’amnistia ai prigionieri politici. A capo dei dipartimenti governativi furono posti
ministri di stampo riformista. Nel 1857 Alessandro compì il primo passo ufficiale,
chiedendo pubblicamente alla nobiltà di unirsi a lui per smantellare il sistema della
servitù.
I preparativi all’emancipazione durarono quattro anni, dal 1857 al 1861, e avvennero
sostanzialmente sotto la guida del governo, appoggiati in prima persona dallo zar, che di
fronte alle difficoltà e alle resistenze di molti nobili (compresi autorevoli uomini politici),
dimostrò di possedere tenacia e doti diplomatiche. I termini dell’emancipazione furono
elaborati da una serie di commissioni statali che non si presero, però, la briga di consultare
i contadini; i comitati nobiliari di provincia ebbero poca voce in capitolo, ma ebbero una
significativa opportunità di partecipare all’applicazione pratica a livello locale. Una volta
decretata la libertà personale, la questione principale era quella della terra. L’esempio
negativo del Baltico, dove l’emancipazione era avvenuta senza assegnare terre alla classe
contadina, spinse Alessandro a risolversi per un’emancipazione con la terra. Per i
contadini la terra apparteneva a Dio e a chi la coltivava, dunque i campi delle tenute
nobiliari erano dei contadini; i proprietari terrieri, invece, davano per scontato il loro
diritto di proprietà sui propri interi possedimenti, basandosi sul diritto romano. La
decisione finale, proclamata il 19 febbraio 1861 (durante la Quaresima, per sottolinearne
la solennità), fu inevitabilmente un compromesso. I proprietari terrieri dovettero
concedere più terra di quanto desiderassero, ricevendo in cambio un esiguo risarcimento,
mentre i contadini ottennero meno terra e a condizioni più onerose di quanto si
aspettassero. La terra non fu assegnata agli individui, ma alle comuni, ridefinite in modo
nuovo, che avrebbero regolato la distribuzione dei terreni e organizzato la riscossione
delle tasse sotto la responsabilità collettiva. Questa misura di controllo sociale, in cui la
comune rurale prendeva il posto dell’autorità padronale locale, doveva mantenere l’ordine
tra i contadini, legandoli ai loro campi e assicurando il pagamento continuativo dei tributi.
Nelle questioni di tutti i giorni le comuni, raggruppate in volosti, si governavano da sole,
rifacendosi più alle consuetudini di villaggio che alle leggi dello stato. Questo e le
continue punizioni corporali separavano i contadini dagli altri gruppi sociali. La libertà
personale era immediata, ma l’assegnazione delle terre diventava effettiva solo due anni
dopo o alla firma del contratto tra proprietario e contadino. Il governo, impoverito dalla