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Modulo 5
L’impero romano
1. I poteri di Augusto
Il salvatore della patria Tornato a Roma nel 29 a.C. dopo aver sconfitto Antonio, Ot-
taviano fu accolto come il salvatore della patria. Per evitare il ripetersi di nuove guerre ci-
vili, egli mantenne il comando supremo delle forze armate: il titolo di imperatore (impe-
rator), del quale tradizionalmente i generali potevano fregiarsi soltanto nel giorno del
trionfo e che già era stato adottato da Cesare, non fu mai abbandonato da Ottaviano e di-
venne il primo elemento della sua formula onomastica, in quanto «prenome» (come di-
cevano i Romani). Nell’elenco dei senatori, egli fu collocato al primo posto, con la quali-
fica di princeps Senatus, principe, cioè «primo» del senato e quindi primo cittadino dello
Stato. Imperatore, impero, principe, principato, sono appunto i termini entrati nell’uso
storiografico per indicare il nuovo regime cui Ottaviano diede vita. Nel 27 a.C. egli as-
sunse inoltre il cognome Augusto. Derivato dal verbo augeo, «accresco», Augusto indi-
cava appunto la caratteristica di un uomo che faceva aumentare il benessere dei cittadini
e che per questo era oggetto di devozione. La sua formula onomastica divenne pertanto
la seguente: Imperator Caesar Divi filius Augustus, cioè «Imperatore Cesare Augusto, fi-
glio del divino Cesare».
Necessità del cambiamento Augusto era giustamente convinto che la repubblica ro-
mana avesse esaurito il suo ciclo vitale. Dall’uccisione dei Gracchi alla battaglia di Azio
(31 a.C.), per circa un secolo, Roma era stata ripetutamente sconvolta dalle violenze po-
litiche e dalle guerre civili. Era necessario un nuovo ordine.
Realtà e apparenza Da politico di eccezionale livello qual era, Augusto capì subito che
sarebbe stato pericoloso proclamare apertamente la fine della repubblica e la nascita del-
la monarchia, farsi chiamare re, ridurre il senato a un gruppo di cortigiani. Egli sapeva
che la classe dirigente era ancora in larga parte legata a quei logori ordinamenti repub-
blicani e che il popolo stesso aveva tenacemente in odio il nome di re. Decise quindi di
fondare un nuovo Stato dando l’impressione di mantenere in vita il vecchio e di proce-
dere a vaste trasformazioni facendo credere di mutare nulla o poco. In questa grandiosa
operazione sta tutta la misura del suo genio politico.
Nel suo «testamento politico», che ci è pervenuto in alcune copie epigrafiche, Augusto
formulò esplicitamente il modo in cui valutava i fondamenti del proprio potere. Il suo ra-
gionamento era grosso modo questo: dopo la vittoria nelle guerre civili, nel 27 a.C. egli
aveva restituito la repubblica nelle mani del senato e del popolo romano. Per i grandi me-
riti acquisiti aveva ricevuto – in quello stesso anno e negli anni che seguirono – onori ec-
cezionali, ed era stato ritenuto superiore a tutti in auctoritas: con una certa approssima-
zione possiamo tradurre questa parola con «autorità, prestigio». Quanto alla potestas, va-
le a dire al potere di magistrato, egli non ne aveva avuto più di coloro che gli erano stati
«colleghi» nelle singole magistrature. I poteri sui quali Augusto fondò il suo governo era-
no fondamentalmente due: la potestà tribunicia, vale a dire i poteri dei tribuni della ple-
be, e l’imperio proconsolare, i poteri dei proconsoli (cioè gli ex-consoli che esercitavano
comandi militari e il governo delle province più importanti).
Potestà tribunicia e imperio proconsolare Ma non era vero che i poteri di Augusto fos-
sero di pari grado rispetto a quelli degli altri tribuni della plebe o degli altri proconsoli. Au-
gusto, infatti, assunse – come Cesare – la potestà tribunicia, ma non era tribuno della plebe.
Questo voleva dire che la sua persona era sacra e inviolabile come quella dei tribuni, e che
come i tribuni egli poteva far approvare plebisciti dall’assemblea della plebe, convocare il
senato, usare il diritto di veto nei confronti del senato e degli altri magistrati. Ma c’era una
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