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                                                                                      L’imperialismo romano



                        Un odio eterno
                        La grande epopea delle guerre puniche offrì materiale suggestivo anche ai poeti. Nevio, che par-
                        tecipò personalmente al primo scontro con Cartagine, scrisse appunto una Guerra punica (ne so-
                        no rimasti solo pochi frammenti) che rappresentò il primo poema «nazionale» dei Romani. Circa
                        due secoli dopo, Virgilio, nell’Eneide, fece risalire l’origine del conflitto a un grande amore tradi-
                        to: quello tra la regina di Tiro, Didone, ed Enea, capostipite dei Romani.
                        Enea era approdato a Tiro esule dalla sua patria distrutta, Troia. Il dramma esplode quando la
                        donna scopre che Enea, cui ella aveva offerto l’amore e il trono, è salpato di nascosto con i suoi
                        compagni. Ma Enea doveva compiere il destino assegnatogli dagli dèi: fondare nel Lazio una nuo-
                        va Troia.


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                         Virgilio, Eneide, IV, 584-629                          mendichi aiuto, veda strazio orrendo dei suoi.
                                                                                E quando anche di pace umiliante ai patti si pieghi,
                         E già irrorava la terra di luce nuova la prima         non goda del regno, non dell’amabile luce,
                         Aurora, dal croceo letto di Titone levandosi:          ma cada avanti il suo giorno; su nuda terra, insepolto.
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                         appena dalle finestre vide albeggiare la luce,         Chiedo questo, quest’ultima voce col mio sangue effondo.
                         e vide, Didone, procedere a vele spiegate la flotta,   E voi, Tirii, per sempre la stirpe e tutta la razza
                         e i lidi e i porti vuoti indovinò, senza navi,         tormentate con l’odio, questo dono al mio cenere
                         tre e quattro volte colpendo con la mano il bel petto,  offrite. Nessun amore, mai, nessun patto tra i popoli.
                         strappandosi i biondi capelli: «Ah Giove, gridò,       E sorgi, vendicatore, oh, dalle mie ossa,
                         se n’andrà lo straniero, e avrà deriso il mio regno?   col ferro, col fuoco perseguita i coloni Troiani,
                         Non prenderanno le armi, non correranno da tutta       ora, poi, non importa: quando bastino le forze.
                         la città, non strapperanno dagli arsenali le navi?     I lidi ai lidi contrari, all’onde supplico l’onde,
                         Andate, presto, portate fiamme, issate le vele,        l’armi all’armi: essi e i nipoti combattano».
                         forza coi remi! Che dico o dove sono? Che pazzia ti sconvolge,
                         infelice Didone? Adesso l’empie azioni ti toccano?
                         Allora dovevano, che scettro gli davi. Ecco una destra  1. Titone era lo sposo di Eos, l’Aurora; l’alba è raffigurata come un letto color zaf-
                         fedele. E dicono che dalla patria si porta i Penati ,  ferano (croceo).
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                         che al padre decrepito ha offerto le spalle! 3        2. I Penati erano le divinità che proteggevano la famiglia e lo Stato. Il loro nome
                         Non potevo straziare, sbranare il suo corpo e nell’onde  (da penus, «interno della casa, provviste») deriva dal fatto che originariamente i Pe-
                                                                               nati erano gli spiriti tutelari dei viveri di riserva della famiglia. Enea portò con sé,
                         disseminarlo? Finirne col ferro i compagni, e anche Ascanio ,  fuggendo da Troia, le statuette dei Penati.
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                         e cibo imbandirlo sopra la mensa del padre?           3. Un’altra prova della virtù di Enea, rappresentato come eroe pio: egli aveva por-
                         Sì, era incerta la lotta: e poteva pur esserlo,       tato in salvo sulle proprie spalle il vecchio padre Anchise.
                         chi devo temere, che muoio? Fuoco gettar sulle navi,  4. Ascanio era il figlio giovinetto di Enea; dall’altro suo nome, Iulo, si sarebbe de-
                         empir le tolde di fiamme dovevo, il figlio ed il padre  nominata la gens Iulia, la famiglia patrizia cui apparteneva Giulio Cesare.
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                         con la razza annientare, gettar me stessa nel rogo.   5. I ponti delle navi.
                         Sole, che con le tue fiamme tutte l’opere illumini    6. Signora delle ombre e dei fantasmi notturni, Ecate guidava le anime dei morti.
                         della terra, e tu artefice e complice di queste pene, Giunone,  7. Così i Romani chiamavano le tre Furie, o Erinni, divinità infernali personifica-
                                                                               zioni della vendetta, della maledizione, del rimorso.
                         Ecate , che per trivii e città notturno l’ululo evoca,  8. Era il nome fenicio di Didone.
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                         Dire vendicatrici, dèi d’Elissa che muore, accogliete  9. [® nota 4].
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                         voi questo, voi col pio nume perseguitate i colpevoli
                         e udite le nostre preghiere: se pur deve giungere
                         al porto quel maledetto, se deve toccare la terra,
                         così vuole il fato di Giove, fisso è questo termine,  GUIDAALLALETTURA
                                                                               1. Per quale motivo la regina Didone è adirata con Enea?
                         oppresso però dalla guerra d’un popolo audace,        2. Che cosa spera Didone che avvenga a Enea?
                         ramingo dalla città, strappato all’abbraccio di Iulo ,  3. La regina Didone esorta il suo popolo a fare cosa?
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                        Ritratto individuale e pregiudizi etnici

                        Le testimonianze antiche superstiti sono quasi tutte ostili alla figura di Annibale. Certo era diffi-
                        cile non riconoscere al condottiero cartaginese quelle doti di intelligenza, di fascino, di coraggio
                        che erano fin troppo note agli amici come ai nemici. Ma nella valutazione della sua personalità pe-

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