Page 10 - Federico II - Genio dei tempi
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con la sua parola un esercito incruento al quale donerà il regno dei Cieli...
          Rivestiamoci dunque con le armi della pace.

             A questa voce possiamo aggiungere quelle di Tertulliano, Minucio Felice,
          Cipriano e Lattanzio, che nel IV secolo scrive: «Dio proibisce l’assassinio
          contrario  alle  leggi  umane  anche  quando  gli  uomini  lo  considerano
          legale. La partecipazione alla guerra quindi non può essere legittima agli

          occhi di un uomo giusto per il quale deve essere la giustizia a sostituire
          il servizio militare». Contemporaneamente, però, proprio alcuni di questi
          Padri dichiarano in modo esplicito il loro timore di vedere distrutta Roma e
          questo complica assai il senso delle loro espressioni di rifiuto alla guerra:

          l’impero si era formato, era cresciuto e soprattutto veniva difeso con le
          armi.
             Con ciò arriviamo ad Agostino d’Ippona: siamo nel 410 e Roma ha subito
          la prima grande violenza ad opera dei goti di Alarico che la occupano e la

          saccheggiano per tre giorni. Lo sgomento del cristiano Gerolamo è grande:
          «Quando la luce del mondo si spense, quando l’impero fu lacerato nella
          sua capitale, quando tutto il mondo perì con questa città io rimasi muto
          e umiliato». L’atteggiamento di Agostino è analogo e gli suggerisce le

          pagine straordinarie della Città di Dio. Eppure, l’impero di Roma ha avuto
          origine - egli lo riconosce esplicitamente - dalla guerra, la violenza e la
          prevaricazione. Una contraddizione che non si risolve anche se è sempre
          l’impero romano - osserveranno con lui altri Padri - ad aver assicurato

          con la sua espansione l’ampio e rapido affermarsi della nuova religione
          di Cristo, realizzando così inconsapevolmente il disegno provvidenziale
          divino.
             Ma qui ci interessa un’altra riflessione di Agostino espressa in modo

          esplicito in una lettera al militare Bonifacio, un alto ufficiale che viveva il
          disagio del cristiano davanti alla guerra. Bonifacio confessa ad Agostino il
          suo desiderio di lasciare l’esercito e farsi monaco. «Non ora - è la risposta
          - tu non devi aspirare prima del tempo opportuno all’altissima posizione

          dei monaci e alla loro beatitudine. Oggi devi esercitarti nella pazienza
          della tua posizione... Tu devi combattere contro i barbari, nemici visibili e
          esterni mentre i monaci pregano per aiutarti a combattere i nemici invisibili
          e interiori». La risposta di Agostino continua delineando in sostanza la

          legittimità della guerra a certe condizioni, la guerra «giusta», rifacendosi
          ad  Ambrogio  e  a  Cicerone:  la  guerra  è  giusta  quando  è  dettata  dalla
          necessità e promossa per «mantenere la giustizia» e ottenere la pace,
          condotta senza crudeltà e con «benevola severità». E aggiunge: «non

          c’è scusa valida che ci esenti dall’amare i nostri nemici ma l’amore non
          esclude le guerre di misericordia intraprese dai buoni». Vanno preservate



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