Page 132 - Un fisico in salotto
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L’infinito


          Guardando il cielo stellato, in una notte limpida, lontano dall’inquinamento luminoso
          delle città, siamo rimasti affascinati dallo spettacolo delle costellazioni.
             Il cielo ci dà l’impressione dell’Infinito. Grandi poeti sono stati affascinati come
          noi. Ci viene subito in mente Leopardi, che ha cantato mirabilmente le sue emozioni
          rendendocene partecipi.

             Ma l’Universo è veramente infinito nello spazio e nel tempo?
             Gli  astronomi  del  passato  hanno  creduto  per  molto  tempo  che  le  cose  stessero
          veramente così, ma tra loro c’è chi in proposito ha avuto idee opposte.
             Johannes  Kepler  fu  nel  ’600  tra  i  primi  a  fornire  argomenti  in  favore  della
          finitezza  dell’Universo;  seguito  dall’altrettanto  famoso  Edmund  Halley  (lo
          scopritore della cometa omonima) nel Diciottesimo secolo. In tempi più recenti tali
          argomenti sono stati ripresi da Heinrich Wilhelm Olbers (1758-1840). Per questo,

          nella  letteratura  scientifica  moderna,  alcune  delle  questioni  sulla  finitezza
          dell’Universo fanno riferimento al Paradosso di Olbers.
             La  questione  si  pone  in  questi  termini:  supponiamo  che  l’Universo  sia  infinito,
          nello  spazio  e  nel  tempo,  e  popolato  di  stelle  più  o  meno  uniformemente.  Inoltre
          supponiamo che esso sia essenzialmente ‘statico’, cioè che, nonostante l’esistenza
          del  continuo  movimento  dei  corpi  celesti,  la  sua  struttura  non  cambi

          apprezzabilmente con il passare del tempo.
             Se così fosse, il cielo notturno che vediamo punteggiato di stelle dovrebbe essere
          di fatto luminosissimo come il Sole! In altre parole, il grande ‘nero’ che osserviamo
          di notte e che fa da sfondo alle costellazioni, sarebbe sostituito da un enorme sfondo
          abbagliante.  Abbagliante  come  la  luce  del  Sole,  che  evitiamo  di  guardare
          direttamente  con  i  nostri  occhi.  Partendo  dalle  nostre  premesse,  siamo  dunque  di
          fronte a una situazione evidentemente paradossale.

             Come  possiamo  renderci  conto  di  questo?  Facciamo  un’analogia,  pensando  a
          quello che a volte succede in un film poliziesco.
             In una scena si vede il bieco assassino, che ha già fatto strage di tanti ‘buoni’. Ora
          si appresta a uccidere anche l’ultima eroina cara al nostro cuore. La ragazza fugge e
          si nasconde tra la vegetazione di un campo coltivato. Anche l’assassino è lì, a pochi

          passi dalla vittima predestinata; eppure, fortunatamente, non la vede! Stiamo col fiato
          sospeso... Ma tutto avrà poi un lieto fine: arriveranno altri eroi e l’assassino sarà
          (nel migliore dei casi per lui...) finalmente assicurato alla Giustizia.
             Per quale motivo l’assassino non ha visto la bella ragazza? Eppure non c’era uno
          spesso muro, tra loro: c’erano soltanto foglie o spighe di grano tra le quali si può
          vedere benissimo.
             In effetti, se siamo in una situazione simile a quella del film (ma stavolta in buona
          compagnia!), vediamo senza difficoltà la nostra ragazza che sta a mezzo metro da

          noi.
             Ora la ragazza decide di allontanarsi, magari per andare romanticamente a cercare
          qualche fiore. Noi continuiamo a seguirla con il nostro sguardo ma, a mano a mano
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