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40 Novelle                                                              Hans Christian Andersen

            fece poi: «Venite ora, e imparerete a conoscere il  mondo. Vi presenterò alla corte; ma statemi
            sempre vicini, per non farvi schiacciare, e guardatevi dal gatto!»
                   E così vennero nel cortile delle anitre. C'era un chiasso tremendo perchè due famiglie si
            disputavano una testa di anguilla, la quale poi toccò al gatto.
                   «Vedete? così va il mondo,» — disse mamma Anitra, e si leccò il becco, perchè anche a lei
            sarebbe piaciuta la testa d'anguilla. «Ed ora,  via sulle vostre gambe!» — diss'ella: «Cercate di
            andare avanti, e chinate il collo dinanzi a quella vecchia anitra laggiù. È il personaggio più
            ragguardevole della corte. Ha sangue spagnolo nelle vene; epperò è così grave. Vedete? porta un
            nastrino rosso alla zampa; e quello è il più grande sfarzo, la maggiore onorificenza che possa
            toccare ad un'anitra. Significa che non la si vuol perdere, e che bestie ed uomini debbono
            riconoscerla. Qua qua!... Via, non tenete le zampe all'indentro! Un anatrino per bene porta le zampe
            all'infuori, come il babbo e la mamma. Così, vedete? Chinate il collo, e fate: qua, qua!»
                   E così fecero. Ma le altre anitre, tutto all'intorno, li esaminarono, e dissero: «Vedete qua!
            Anche questa truppa ci càpita! Come se non fossimo già troppi! O che è quel brutto coso bigio
            laggiù! Non possiamo tollerare una simile bruttura!» — E un'anitra gli piombò addosso, e lo beccò
            sul collo.
                   «Lasciatelo stare,» — disse la madre: «Non fa male a nessuno.»
                   «Sì, ma è così grande e così diverso dagli altri,» — disse l'anitra che l'aveva morso, «che
            bisogna le buschi.»
                   «Avete una bella famiglia, mamma Anitra!» —  disse la vecchia col nastrino rosso alla
            zampa: «Sono tutti bei figliuoli, eccetto quel povero disgraziato lì. Vorrei che poteste rifarlo.»
                   «Ahimè, Eccellenza, questo non è possibile!» — disse mamma Anitra: «Non è bello, ma è di
            buonissima indole, e nuota magnificamente, come tutti i suoi fratelli; starei quasi per dire che nuota
            meglio. Credo che col tempo migliorerà, o, almeno, finirà di crescere. È stato troppo nell'ovo, e per
            questo non è venuto bene.» — E la madre gli battè sul dorso ed incominciò a lisciarlo. «Del resto,»
            — continuò, «è un maschio, e quindi poco importa. Prevedo, anzi, che diverrà robusto; se la cava
            già abbastanza bene...»
                   «Gli altri anatrini sono molto graziosi,» — disse la vecchia: «Fate come se foste a casa
            vostra; e se per caso trovate una testa d'anguilla, portatemela pure.»
                   E fecero infatti come se fossero a casa loro.
                   Ma il povero anitroccolo, ch'era uscito ultimo dall'ovo ed era tanto brutto, s'ebbe i colpi di
            becco, gli assalti e le beffe delle anitre e dei  polli. «È troppo grande!» — dicevano tutti; e il
            tacchino, ch'era nato con gli sproni e perciò s'immaginava d'essere imperatore, si gonfiò come un
            bastimento che spiegasse le vele, fece la ruota, divenne tutto rosso nel capo e gli si avventò. Il
            povero anitroccolo non sapeva che fare nè dove scappare. Si sentiva avvilito d'essere tanto brutto da
            servire di zimbello a tutta la corte.
                   Così passarono i primi giorni, e poi andò di  male in peggio. Il povero anitroccolo era
            scacciato da tutti, e persino i suoi fratelli gli usavano mille sgarbi, e dicevano: «Magari il gatto
            t'ingoiasse una buona volta, brutto che sei!» E la madre sospirava: «Ah, fossi tu lontano le mille
            miglia!» Le anitre lo beccavano, i polli gli si avventavano e la ragazza della fattoria, che veniva a
            portare il becchime, lo respingeva col piede.
                   Egli allora scappò davvero, e spiccò il volo al di là della siepe; gli uccelli fuggirono spauriti
            dai cespugli e s'alzarono nell'aria. «Ecco qua: colpa la mia bruttezza!» — pensò l' anitroccolo; e
            chiuse gli occhi, ma continuò sempre a fuggire. E così arrivò alla grande palude, dove stanno le
            anitre selvatiche; e là si fermò tutta la notte, perchè era tanto stanco e tanto triste.
                   La mattina, le anitre si levarono e videro il nuovo compagno: «Che razza di contadino sei
            mai?» — domandarono; e l'anitroccolo si volse da tutti i lati, e salutò meglio che potè.
                   «Sei di una bruttezza tremenda,» — dissero  le anitre selvatiche; «ma questo a noi poco
            importa, pur che tu non prenda moglie nella nostra famiglia.» — Povero disgraziato, pensava giusto
            a prender moglie!... Non domandava altro se non che gli permettessero di occupare un posticino tra
            i giunchi e di bere l'acqua dello stagno.
                   Era da due giorni nella giuncaia, quando vennero a trovarlo due anitre selvatiche, o, per dir

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