Page 303 - La cucina del riso
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Campania




                    Da una parte, quindi, la crescita costante di borghi e città, Salerno
               in testa, unita alla convinzione che le coltivazioni del riso favorissero lo
               sviluppo della malaria, problema storicamente endemico di tutto il Mezzo-
               giorno, dall’altra lo sviluppo prodigioso della risicoltura in aree più ampie
               e propizie del Nord, fanno sì che uno studio dell’Ente Nazionale Risi del
               1933 indichi che, a fronte di una superfice coltivata di 64.906 ettari e una
               produzione di 311.431 tonnellate del Piemonte, la Campania dedichi allo
               stesso  appena  24  ettari  con  una  produzione  di  96  tonnellate,  ponendosi
               come fanalino di coda tra le regioni produttrici.
                    Il  riso  resta,  per  i  napoletani,  cibo  per  “signori”.  Tutto  l’ottocento
               borbonico lo aveva visto spesso presente nei menu di corte, e certamente
               sempre in occasioni ufficiali, dove invece i maccheroni erano assolutamente
               banditi, in obbedienza alle direttive della cucina francese le cui leggi anda-
               vano in quegli anni affermandosi come biblica verità.
                    È comunque interessante notare che, per esempio nel pranzo del 1°
               marzo 1808, alla tavola di “S.M. la Regina e loro Altezze reali”, viene ser-
               vita una zuppa di riso al pomodoro, e a quello del 3 dello stesso mese, tra le
               entrate, una di bignet di riso. Nel giro di pochi anni queste due preparazioni
               usciranno dalla corte e arriveranno alle tavole dei napoletani. Così il Caval-
               canti nella sua Cucina casarinola: “Riso dint’a lo brodo de pommadoro.
               Farraje no bello brodo co chelle belle pommadoro, e pe connemiento nge
               mettarraje no terzo de nzogna: po piglia doje rotola de rise, li sciglie, li llave
               e l’anniette, e po nge faie na scaudatella, li scule e lli farraje finì de cocere
               dint’a lo brodo de pommadoro”.
                    Ancora oggi, in molte trattorie napoletane, all’ora di pranzo si può tro-
               vare la zuppa di riso al pomodoro: com’è intuibile, parecchi preparano il
               brodo sciogliendo semplicemente il concentrato di pomodoro e facendolo
               cuocere un qualche tempo prima di aggiungervi il riso e lo servono denso
               quasi come fosse un risotto. Discorso analogo per quella che viene affettuo-
               samente chiamata la palla di riso, da qualcuno “arancino”, da altri supplì,
               ma attenzione a non confonderlo con i suoi ben più opulenti e titolati cugini
               siciliani.
                    Quelli  che  con  linguaggio  di  cucina  dell’epoca  venivano  definiti  i
               “bignet” di riso, sempre con lo stesso linguaggio sono stati promossi dal



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