Page 295 - La cucina del riso
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Campania




               CIBO DI LUSSO


                    Sugli oltre cinquecento proverbi destinati dal napoletano, o meglio,
               dalla lingua napoletana, al cibo, non uno che parli di riso. E questo la dice
               lunga sulla presenza di questa graminacea nella cucina meridionale in gene-
               re e in specie in quella campana; se non altro perché ritenuto troppo costoso
               in una regione tradizionalmente povera. Anzi, una regione ricca, ricchissi-
               ma, ma con una sperequazione sociale assai marcata e dove i ceti alti erano
               vistosamente ricchi, e i poveri, particolarmente poveri. Quindi un alimento
               oltre che caro di per sé, e che veniva accusato di assorbire quantità ecces-
               sive di condimento, era chiaro che non entrasse a far parte delle tradizioni
               gastronomiche locali, tranne, naturalmente, alcune gustose eccezioni delle
               quali daremo conto più avanti.
                    Nell’indagine epidemiologica pubblicata dal senatore Errico De Renzi,
               nel 1863, Sull’alimentazione del popolo minuto di Napoli, si legge: “Il riso
               non è adoperato dal popolo minuto per due ragioni: la prima è che il suo
               prezzo supera quello di tutte le paste e ancora dei maccheroni, laonde non
               v’ha persona che non preferisca questi ultimi; la seconda è che il riso ha
               sempre bisogno di condimento e quindi di un’altra spesa, poiché fatto bol-
               lire in acqua semplice senza formaggio è ristucchevole molto più di tutte le
               specie di paste cotte nella stessa guisa. In tutta la città di Napoli nell’anno
               1845 il consumo di riso fu di 6.000 cantaia, mentre quello delle paste di
               varie sorti fu di cantaia 140.000 [il cantaro equivaleva a 89,1 kg]. Il nostro
               volgo non l’usa quasi mai sia per il caro del prezzo, sia perché preferisce
               le paste, e solo in alcuni tempi d’inverno e primavera lo mangia unendovi i
               cavoli sverzi che i napoletani chiamano verzi”.
                    A riprova di quanto su esposto, Achille Spatuzzi e Luigi Somma, nei
               Saggi  igienici  e  medici  sull’alimentazione  del  popolo  minuto  di  Napoli,
               descrivono la vittazione dell’asilo infantile di S. Ferdinando “… e questo
               valga quasi per tutti gli asili (...). A mezzodì ricevono le allieve una sola
               pietanza, cioè alcune volte pasta, altre volte riso o fagiuoli; un rotolo di riso
               (890 grammi) o fagiuoli è diviso a 14 bambine (ovvero 63,5 g a testa), un
               rotolo di pasta a 11 bambine, (ovvero 81 g a testa)”. In proporzione non va
               meglio per l’ospedale dell’Annunziata e per il Regio Albergo dei poveri.



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