Page 186 - La cucina del riso
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Emilia Romagna




                 bolognese, Vincenzo Tanara, nel suo celebre trattato L’economia del cittadino
                 in villa, edito a metà del 1600, tra tutte le piante e le colture agricole, non
                 prende assolutamente in considerazione il riso.
                     Solo dopo la prima metà del 1700 sono caduti i preconcetti che aveva-
                 no frenato la creazione delle risaie, e questo non solo alle porte della città di
                 Bologna, con la conseguente mancanza di un regolare uso del riso in cucina.
                 Un poco alla volta, la coltivazione e l’impiego del riso acquisirono, anche
                 in queste aree, una diversa valenza, tanto che la sua coltura assumeva, per
                 l’economia agricola bolognese, una grande rilevanza, e così è stato sino a
                 dieci, quindici anni dopo la fine dell’ultimo conflitto mondiale, interessando
                 vaste estensioni della “Bassa”. Rispetto alle altre zone risicole italiane, qui
                 si avevano rese unitarie più elevate, e inoltre un riso dal chicco più tondo e
                 grosso del normale. La risaia era organizzata in vaste “piane”, con dimen-
                 sioni  anche  di  molte  decine  di  ettari  l’una,  delimitate  da  robusti  argini;
                 mediante piccoli arginelli, le “piane” erano poi suddivise in “quadre”. Nella
                 maggior parte dei casi, l’acqua veniva raccolta in primavera in apposite
                 casse e da qui, nei momenti giusti, era prelevata e distribuita: acqua ferma
                 e stagnante, che aveva, per l’irradiazione solare, temperature più elevate.
                 Anche qui le varie fasi, dalla monda alla raccolta, era fatta a mano.
                     La bonifica favorì la ripresa delle semine risicole, dapprima a S. Marino
                 di Bentivoglio (1790) e poi a Selva Malvezzi, dove nel 1810 sorse una risaia
                 attorno ad un antico magazzino di cereali di cui s’era trovata traccia fin dal
                 1600. Nacque così il “Borgo del riso”, imperniato attorno ad un ampio essic-
                 catoio che è rimasto attivo fino al 1955. Poi, dopo anni di abbandono, alcuni
                 anni fa, la zona è stata rivitalizzata da una Cooperativa con intenti didattici e
                 di salvaguardia del patrimonio naturalistico, affiancando anche l’attività agri-
                 turistica. Ed è in questo ambito che è risorta anche una risaia di 7 ettari con un
                 ottimo Carnaroli, l’unica in questa zona di “protezione speciale” con semina
                 e inondazione a maggio e raccolto, per circa 150 quintali, in ottobre.
                     Lo sviluppo industriale del dopoguerra, il progressivo svuotamento delle
                 campagne, l’utilizzo dei terreni agricoli per coltivazioni più industrializzate e
                 redditizie, hanno determinato un rapido abbandono e la conseguente quasi totale
                 chiusura delle risaie emiliane, che sopravvivono solo in poche e irrilevanti realtà.
                 Ma il riso, al contrario, è entrato un poco alla volta nelle abitudini alimentari.



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