Page 111 - La cucina del riso
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Lombardia




               nano. Le province lombarde oggi producono riso su una superfice di 98.842
               etttari divisi fra Lodi (2.082 ha), Milano (13.523 ha), Pavia (82.052 ha), Man-
               tova (1.182 ha), secondo i dati Ente Nazionale Risi (2013).
                    Con l’incremento della coltivazione, non tarda a manifestarsi un rile-
               vante impatto sociale, anche se agli inizi del 1500, racconta Folengo (“qui-
               sque videbatur risi mangiasse minestra”), era ancora una speranza più che
               una realtà. A lungo se ne sarebbero additati i pericoli igienico-sanitari: si
               accusa la risicoltura dapprima di veicolare la peste, poi, fondatamente, di
               provocare la malaria e le febbri palustri, “fevera di ris” a Milano o, meglio,
               “fevera del Bas”, cioè della Bassa milanese. Il governo spagnolo vietò le
               risaie per 2-3 miglia fuori delle mura cittadine e l’arcivescovo Carlo Bor-
               romeo, che pur aveva difeso le colture intraprese dai fittavoli della Chiesa
               milanese, sfruttandole anche nel 1570 per una minestra dei poveri afflitti
               dalla carestia, fu infine costretto a condividere il divieto. Ancora nel pieno
               Ottocento, nel Cremonese, si accusavano le risaie (ma anche maceri del lino
               e della canapa, marcite e paludi in genere) di cagionare, specialmente nelle
               lavoratrici dei campi, le febbri palustri.
                    L’agronomo bresciano Agostino Gallo, al passaggio del 1500, forniva
               precise indicazioni per coltivare correttamente il riso, esprimendo preoc-
               cupazione per il “cattivo aere” cagionato dalle risaie, ma segnalando, al
               contempo, l’utilità del riso nell’alimentazione: “Lodarei che si seminasse
               quattro volte tanto, come si fa; perciocché si vede quanta sovvenzione rende
               a questo paese nel mangiarlo in minestra, e più nel macinarlo con la segala, e
               miglio insieme, o con quello solamente per fare il pane con maggior utilità”.
                    Prevalsero le minestre calde, sul modello di pappine, polentine di cere-
               ali e graminacee. Il riso era conveniente d’inverno quando scarseggiavano le
               verdure: ne bastava poco e con modesta spesa si potevano sfamare le fami-
               glie numerose e si preferivano cotture lunghe, tali da far crescere il volume
               dei chicchi, “I risi se mette suso bonora, acciò che i cressa”, sosteneva Sior
               Todaro brontolon. Ma, nonostante questo, tardò a sbiadire l’immagine degli
               altri cereali. Il riso si giovò di verdure, carni e condimenti in piatti via via
               diffusi fra i contadini più abbienti. Lentamente conquistò le città, lustro del-
               la cucina borghese che lo elesse prima portata consueta, estendendosi, a fine
               Ottocento, al proletariato in ascesa. Nelle altre campagne, dal XVII secolo



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