Page 99 - Oriana Fallaci - La vita è una guerra ripetuta ogni giorno
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colpa d’aver creato dopo la Seconda guerra mondiale l’orrendo pasticcio. Noi
occidentali che ora nutriamo l’orrendo pasticcio con la nostra ipocrisia e il nostro
cinismo.
Non sprecherò tempo a illustrarvi l’ipocrisia americana. Conoscete meglio di me
come e in quale misura il governo ha sostenuto e continua a sostenere il governo di
Begin, malgrado le proteste verbali e le vane frasi di indignazione. Ma voglio
raccontarvi un piccolo episodio del nostro cinismo europeo: Sharon stava ancora
bombardando Beirut quando gli europei, soprattutto gli italiani e i francesi, si
litigavano fra di loro per ottenere gli appalti e ricostruir la città facendoci sopra un
mucchio di soldi. E mentre essi litigavano fra loro, arrivarono i giapponesi. A
decine, come fanno i turisti di Tokyo che vengono a Roma per vedere il Colosseo, a
Pisa per vedere la Torre pendente, a Venezia per vedere il ponte dei Sospiri e
riempiono tutti quegli autobus con l’aria condizionata. Arrivarono zitti zitti con la
nave, da Cipro. E zitti zitti sbarcarono a Junieh, vennero a Beirut, e comprarono Dio
sa quante case bombardate: le macerie coi cadaveri sotto. «Non importa, non
importa: ce ne occupiamo noi. Ricostruiremo Beirut.»
Il che potrebbe essere l’unica verità, voglio dire una futura Beirut giapponese, in
una parte del mondo dove le bugie abbondano come i cadaveri e dove la bugia più
grossa di tutte è la parola «pace». Se pensate che al signor Begin è stato dato il
premio Nobel per la pace. Se pensate che il nome dato a questa guerra dagli
israeliani è Pace in Galilea. Si può immaginare una beffa più crudele, più
agghiacciante? Lo dissi a Sharon, in una pausa dell’intervista. E Sharon sorrise,
rispose: «Quella fu una scelta di Begin». Bugiardo. Fu anche la sua scelta. Fu una
scelta del governo. Il fatto è che Sharon mente sempre, come Shimon Peres gli ha
gridato in Parlamento: «Perché menti sempre?». Lo ha scritto molti anni fa anche Ben
Gurion: «Oh, se Arik potesse fare a meno di mentire!». Anche Begin mente. E Arafat,
come vedremo. E i Gemayel, naturalmente. E gli americani, come abbiamo visto, e
gli europei. E proprio per quelle menzogne, quell’orgia di menzogne, mi imposi di
superare il disagio, di cui parlavo prima: decisi di andare a Beirut per cercarvi
qualche goccia di verità.
Vi andai nei primissimi giorni d’agosto, via Damasco. A quel tempo non era
necessario avere il visto israeliano sul passaporto per recarsi a Beirut e, anzi, era
saggio non passare da Israele dove per raggiunger Beirut bisognava chiedere un
permesso speciale che durava soltanto un giorno o due, poi subire la presenza di una
scorta. (Scorte piacevoli, sapete. Le sceglievano tra i loro ufficiali più belli, più
simpatici, più tolleranti: veri campioni di public relation. Però censori spietati che ti
seguivano ovunque controllando tutto ciò che facevi, vedevi, ascoltavi, scrivevi,
telefonavi. Censori, inoltre, che ti impedivano di raggiungere Beirut Ovest.) Così vi
andai da Damasco, cioè per la strada che passa attraverso la vallata della Bekaa, e
mi sistemai all’hotel Alexandre: appena devastato da una carica di dinamite e
tormentato dai katiusha dell’Olp. Due giorni dopo raggiunsi Beirut Ovest passando
dalla Galerie Semaan (un’ampia strada dove un tempo sorgeva un centro
commerciale, ora totalmente distrutto, spesso aperta per consentire l’esodo dei