Page 102 - Oriana Fallaci - La vita è una guerra ripetuta ogni giorno
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di Begin), a questo «parolaio pieno di metafore e di retorica» (il giudizio non è mio,
è di Ben Gurion), a questo bigotto vendicativo (il termine è mio), che buona parte del
mondo è stanca della sua biblica pomposità, della sua isterica presunzione, e della
sua stupidaggine politica. Sì, stupidaggine. Perché soltanto un politico stupido può
illudersi di annullare il problema di cinque milioni di palestinesi aggiungendo
tragedia alla loro tragedia.
Ed eccoci ad Arafat, al perché non chiesi di vedere Arafat. Sapete, io e Arafat
non siamo amiconi. Da quando lo intervistai nel 1970 gli sono antipatica quanto lui è
antipatico a me. Tempo fa il giornalista di un settimanale che appartiene al mio
editore andò in Libano per intervistarlo. Gli aiutanti di Arafat gli chiesero se
l’editore del settimanale era il medesimo che pubblicava i libri e le interviste di
Oriana Fallaci e, quando il poveretto rispose tutto contento sì, gli puntarono la
rivoltella allo stomaco: «Se ne vada o si becca una pallottola in corpo». Che cosa
egli pensi di me, esattamente, io non lo so: che sono al servizio degli israeliani,
suppongo, che sono l’amante di Begin o Sharon. Però so quello che penso di lui, e
quel che penso di lui non coincide affatto con l’entusiasmo che per lui è scoppiato
nel mio Paese dove viene ricevuto e abbracciato come se fosse l’allenatore della
squadra che ha vinto il campionato mondiale di calcio.
Per incominciare, penso che egli sia una persona infida e ambigua: un tipo che
compete con Sharon nell’arte di mentire. Mentiva ai suoi uomini quando gli diceva
che non avrebbe mai lasciato Beirut, mai. Mentiva a Habib quando gli prometteva
che non avrebbe lasciato un guerrigliero a Beirut, non uno. Mentiva ai deputati
americani quando gli consegnava quel foglio su cui doveva essere scritto che
riconosceva Israele e invece non c’era scritto nulla del genere. Mente ora che parla
di pace. Neanche a lui importa un corno della pace, anche lui è pronto per ricevere il
premio Nobel per la pace. Arafat è un uomo politico, insomma, e nel senso peggiore
di questo termine: dei politici che ci fanno pronunciare la parola «politica» come se
fosse una parolaccia ha tutte le caratteristiche e tutti i difetti. La vanità, per esempio:
inclusa la vanità estetica di quella barba che rasa con tanta sapienza, a metà, onde
sembrare un Cristo che dorme in una perpetua trincea. Il che non avviene, visto che
ha bellissime case ben arredate dove dorme come un Papa se Sharon non lo
bombarda: è ricco. Poi l’arroganza: inclusa l’arroganza civettuola di quel pistolone
che porta sempre alla cintura come se fosse un guerriero. Non lo è, e in compenso si
fa proteggere da numerose guardie del corpo. Quindi a che cosa gli serve quel
pistolone? Infine, e questa è la cosa più seria di tutte, la sua mancanza di chiarezza
politica.
Ma con chi sta, il signor Arafat: con l’Unione Sovietica o con l’Arabia Saudita?
E quali sono le sue opinioni politiche? Non ce lo dice mai. Ripete sempre gli stessi
slogan sulla Palestina e non ci dice mai quale Stato palestinese vorrebbe:
democratico, totalitario, marxista, capitalista. Mistero. Di sicuro c’è soltanto che
come un capo di Stato lo trattano, anzi si fa trattare. E pazienza se si tratta di un capo
di Stato che nessuno ha mai eletto. Peggio: d’un capo di Stato che è diventato tale
non per i suoi meriti ma per la sua vecchia amicizia con lo sceicco Zaki Yamani,