Page 103 - Oriana Fallaci - La vita è una guerra ripetuta ogni giorno
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ministro del Petrolio dell’Arabia Saudita, e per i suoi stretti legami con la monarchia

          saudita  che  lo  finanzia  più  di  chiunque  altro.  Insomma,  io  sono  incapace  di
          identificare Arafat coi cinque milioni di creature che nessuno vuole e che vivono
          come animali nelle baracche del Libano, della Siria, della West Bank, di Gaza, in
          attesa d’essere sgozzati come animali.

               Forse mi sbaglio. Forse questo Arafat non è poi tanto male e, in tal caso, sarò
          felice di cambiare idea su di lui un giorno: io sono sempre felice di cambiare idea
          quando  si  tratta  della  reputazione  e  della  dignità  di  un  uomo.  Però,  anche  se  mi
          sbaglio  sulle  cose  che  ho  detto,  rimane  un  fatto  su  cui  non  mi  sbaglio  per  niente.
          Questo Arafat  si  è  sempre  presentato  come  un’anima  pura  e  incapace  di  viltà,  un
          legalitario che ha in uggia la violenza. Non è vero. Non tutte le bombe che scoppiano
          a Gerusalemme e altrove sono bombe dei suoi dissidenti, e in Libano il suo Olp non
          si è comportato davvero come la Croce Rossa. Per dirne una, il macello dei cristiani

          compiuto a Damour nel gennaio del 1976 è del suo Olp. Inoltre, per anni egli ci ha
          ricattato e terrorizzato coi suoi dirottamenti di aerei, le sue cariche di dinamite, le
          sue carognate: Monaco, Zurigo, Entebbe, aeroporto di Fiumicino, Paesi che non gli
          avevan rubato neanche un centimetro della sua terra. Per anni ha ospitato e allenato e
          armato i terroristi di ogni nazione e di ogni colore, inclusi quelli che tormentano il

          mio Paese e tentano di assassinare una democrazia che è lungi dall’essere perfetta
          ma  è  democrazia.  Il  mio  presidente,  il  presidente  della  Repubblica  italiana,  deve
          averlo proprio dimenticato mentre lo riceveva al Quirinale e lo teneva a mangiare
          con  sé.  E  così  gli  illustri  politici  che  lo  hanno  invitato  in  Italia  con  la  scusa  del
          convegno  interparlamentare,  i  capi  dei  sindacati  e  i  capi  dei  partiti  che  lo  hanno
          onorato, il ministro degli Esteri che gli ha stretto la mano, il sindaco di Roma che lo
          ha abbracciato più di tutti perché è ebreo. A Roma gli hanno fatto vedere un mucchio
          di persone e di cose ad Arafat. Hanno dimenticato di fargli vedere la tomba di Aldo

          Moro e degli altri italiani ammazzati in questi anni anche grazie agli allenamenti e
          alle armi dell’Olp.
               Se avessi intervistato Arafat a Beirut glielo avrei detto. E gli avrei ricordato altri
          particolari  sgradevoli.  Ma  a  Beirut  non  potevo,  non  dovevo.  Perché  a  Beirut  egli

          stava con le vittime, una vittima lui stesso. A Beirut era un uomo ferito, disperato,
          sconfitto, che poteva morire in qualsiasi momento. E io non colpisco la gente ferita,
          disperata, sconfitta, che può morire in qualsiasi momento. Io colpisco i potenti che
          seggono comodi e sicuri su un trono. Se mai chiederò ad Arafat di rivedermi sarà
          quando si troverà in una situazione ben diversa da quella di questa estate. E va da sé
          (lo dico per chi si sente un po’ troppo consolato, un po’ troppo deliziato dal mio
          ritrattino),  neanche  allora  proverò  per  lui  tutta  l’ira  che  oggi  provo  per  Sharon  e

          Begin e Shamir: la troika di Gerusalemme. Almeno, bene o male, Arafat ha un sogno.
          Quei tre hanno perduto perfino i sogni.
               A Beirut avrei voluto vedere, invece, Bashir Gemayel. E per questo rimasi più
          del necessario in quell’inferno, mezza rincretinita dalla mancanza di sonno perché
          ogni  volta  che  mi  buttavo  sul  letto,  con  le  scarpe  per  esser  pronta  a  saltar  su  e

          scappare  al  primo  scoppio,  un  nuovo  bombardamento  incominciava,  inoltre
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