Page 108 - Oriana Fallaci - La vita è una guerra ripetuta ogni giorno
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sfila in qualche corteo pacifista o un algerino sceso in piazza per dimostrare contro
la guerra nel Golfo. È un suddito fedele di sua maestà re Fahd, un saudita che indossa
il «thobe» e si copre la testa col «quatra» a quadretti bianchi e rossi, un mussulmano
che all’alba e a mezzogiorno e nel pomeriggio e al tramonto e al calar della sera si
ferma per pregare Allah.
(«Please, don’t write my name, non scriva il mio nome. Mi chiami
semplicemente Khalid.»)
Inoltre è ricco. A Riad ha due case, due mogli, una florida ditta che importa
computer. Parla un ottimo inglese appreso a Londra dove ha studiato e s’è laureato in
economia, ama far le vacanze a Roma e a Parigi, legge l’«Arab News» cioè un
giornale conservatore, e non ama Saddam Hussein.
Dopo l’invasione del Kuwait si schierò dalla parte di chi invocava l’intervento
degli americani. «Le dirò di più. Quando Schwarzkopf incominciò a costruire la sua
Grande Armada, tirai un respiro di sollievo. Ma presto quel respiro divenne affanno,
angoscia, e presi a chiedermi: Dio misericordioso, ora come faremo a mandarli via?
Presi anche ad augurarmi che la guerra non scoppiasse o scoppiasse il più tardi
possibile, e il 17 gennaio ho pianto. Non mi piace avere gli americani in casa, sapere
che stanno nelle mie città e nel mio deserto. Non mi piace pensare che quei
bombardieri decollano dalle mie città e dal mio deserto. Mi fa sentire in colpa. E
questo senso di colpa dura da un mese. Un mese, capisce?!?»
«Bush aveva detto che sarebbe stata una guerra breve, rapida, e noi gli abbiamo
creduto» interviene un altro, più giovane, sui trent’anni, che chiamerò Sharif. Suddito
fedele di sua maestà re Fahd, anche lui, col «thobe» addosso e il «quatra» in testa, è
anche lui ricco, educato in Occidente. (Per cinque anni ha vissuto a Washington dove
studiava scienze politiche.) Anche lui nemico di Saddam Hussein. Credendogli ci
siamo illusi che si trattasse d’una guerra come quella di Panama e di Grenada, d’una
operazione semplice e indolore, d’una specie di intervento chirurgico per togliere
l’appendicite, e invece è un mese che distrugge l’Iraq. Distrugge quello e basta, del
Kuwait non ha liberato che un’isoletta di mezzo chilometro. E ora che Saddam
Hussein sembra disposto a patteggiare, fa orecchi da mercante. I suoi generali
continuano a parlare di attacco terrestre e di sbarco. Ma quando lo fanno questo
sbarco, quando lo lanciano questo attacco terrestre? La vigilia del Ramadan? Il
Ramadan per noi è un simbolo di pace, di fratellanza, di purificazione, un periodo
durante il quale i mussulmani di ogni Paese vengono qui per pregare alla Mecca.
Sarebbe uno scandalo se i cannoni tuonassero mentre i mussulmani di ogni Paese
sono qui per pregare alla Mecca, e capirei se qualcuno di loro ne approfittasse per
scatenare attentati. Ieri un amico mi ha chiamato da Gedda. Era sconvolto, s’è messo
a gridare: “Bisogna bruciare gli americani! Bisogna ammazzarli! Bisogna mandarli
via!”. Sia pure a bassa voce lo ripetono in molti, quaggiù. Se parlasse l’arabo e
interrogasse la gente per strada, ne ascolterebbe di belle. Ma lei crede che siano
contenti, i soldati e gli aviatori sauditi, di sparare sui loro fratelli di Baghdad? Il
pilota che ha abbattuto due aerei iracheni qui non è affatto un eroe. E quando ha detto
alla tv che aveva avuto una buona giornata, molti hanno provato vergogna.»