Page 109 - Oriana Fallaci - La vita è una guerra ripetuta ogni giorno
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«Io ho provato vergogna a vedere la fotografia di otto Marines che ballavano di

          gioia intorno a un carro armato perché a  Baghdad era stato distrutto non so quale
          edificio» aggiunge un terzo che chiamerò  Tarik.  Venticinque anni, lui, figlio di un
          miliardario, e per sei anni studente all’Università di Los Angeles dove s’è laureato
          in storia e filosofia. «La stessa vergogna che mi ha chiuso la gola a udire la storia
          del rifugio dove sono morti centinaia di bambini, di vecchi, di donne.  Non hanno
          chiesto  nemmeno  scusa,  gli  americani.  Hanno  detto  che  si  trattava  d’un  obiettivo

          militare e basta, poi hanno aggiunto che certi obiettivi continueranno a bombardarli
          quanto gli pare. Non mi piacciono gli americani. Non mi piacevano nemmeno quando
          stavo a Los Angeles. Erano rozzi, volgari, specialmente i neri, e non facevano che
          scroccarmi cene nei ristoranti di lusso.
              «Tanto  sei  saudita,  dicevano,  hai  pozzi  di  petrolio.  A  volte  per  difendermi
          dovevo dire no, non sono saudita, sono afghano. Sono nato a Kabul, il mio nome è

          Ibrahim e mio padre fa il pecoraio. Con gli studenti iracheni invece mi sentivo bene,
          andavo  d’  accordo.  Non  dovevamo  farla  questa  guerra,  no.  Non  è  nemmeno  una
          guerra, è uno show televisivo per far guadagnare il padrone della Cnn: quel Turner
          che va con Jane Fonda. Lo sa quanto costavano, prima della guerra, trenta secondi di
          pubblicità alla Cnn? Cinquemila dollari. E sa quanto costano ora? Ventimila dollari.

          Le sembra giusto che gli iracheni muoiano per far guadagnare soldi al boy friend di
          Jane Fonda?»
              «Mi ascolti bene perché questo discorso riguarda tutti gli occidentali: io all’idea
          di  appartenere  a  un  Paese  che  ha  chiamato  gli  americani  e  con  gli  americani  voi
          europei, mi sento un traditore. E il mio mullah ha ragione a dire che tutti gli arabi che
          stanno  da  questa  parte  della  barricata  dovrebbero  sentirsi  traditori.  Kuwaitiani

          compresi». «Il suo mullah?» «Sì, il mullah. È stato lui a spiegarmi ciò che non avevo
          capito.»
               Eh,  sì:  nessuno  ne  parla  perché  chi  se  n’è  accorto  ritiene  che  sia  meglio  non
          toccar l’argomento, non svegliare la tigre che dorme. Ma c’è una guerra dentro la
          guerra, quaggiù. Una guerra invisibile, intangibile, imprevista, e in un certo senso più

          terrorizzante di quella che avviene coi bombardieri, i cannoni, i carri armati, le navi,
          gli Scud: quella che, attraverso un risorto antiamericanismo, a poco a poco schiera i
          sauditi  contro  gli  occidentali.  La  guidano  i  mullah  dei  quartieri  periferici  e  delle
          moschee meno importanti, cioè i preti estranei all’oligarchia religiosa che assieme ai
          cinquemila  principi  della  famiglia  reale  domina  il  Paese.  La  sostengono  gli
          intellettuali  e  i  borghesi  come  i  tre  che  ho  chiamato  Khalid,  Rashid,  Tarik,  la
          appoggiano perfino alcuni membri dell’establishment economico-culturale.

               E sebbene cresca in sordina, silenziosamente, cautissimamente, s’avverte in ogni
          strato della popolazione. Lo dimostra il cameriere che con malcelata ostilità ti versa
          il  caffè  nella  tazza,  il  tassista  che  con  mal  repressa  antipatia  t’accompagna
          all’albergo,  la  ragazza  in  chador  che  nel  rifugio  ti  lancia  uno  sguardo  ostile,  il

          soldato  in  tuta  mimetica  che  quasi  con  rabbia  ti  esamina  il  lasciapassare,  e
          addirittura lo sceicco che con falsa gentilezza t’ha invitato a bere il tè. Non a caso i
          volantini contro gli americani e i loro alleati incominciano a girare per le città. Coi
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