Page 104 - Oriana Fallaci - La vita è una guerra ripetuta ogni giorno
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provocata dagli ufficiali israeliani che ripetevano gli insulti di Begin agli italiani che

          avrebbero fatto parte delle Forze internazionali. «Gli italiani non sanno combattere.
          Sanno  cantare  e  basta.  Arriveranno  poche  centinaia  di  italiani.  Non
          preoccupiamocene.»  «L’operetta  è  completa:  arrivano  gli  italiani.»  «Gli  italiani
          sono in viaggio. Canteremo i Pagliacci.» Ci tenevo a vedere Bashir Gemayel perché
          egli  non  era  nella  situazione  di  Arafat.  Protetto  da  Sharon  che  in  lui  vedeva  il
          perfetto  vassallo  di  un  Libano  vassallo,  riparato  dietro  una  furbizia  che  lo  aveva

          tenuto fuori della guerra, Gemayel viveva in attesa del suo trionfo presidenziale e,
          nel  suo  caso,  non  mi  sentivo  frenata  dagli  scrupoli  che  mi  frenavano  con Arafat.
          Voglio dire, avrei potuto interrogarlo comodamente sulle sue imprese e sul fatto che
          era un fascista figlio d’un fascista… Gemayel rispose alla fine che mi avrebbe visto
          in  settembre  e  così  lasciai  Beirut  e  andai  a  Tel Aviv  per  intervistare  Sharon:  di
          nuovo provocata dagli scherzi insultanti per gli italiani che sarebbero venuti con le
          Forze internazionali. Stavolta erano funzionari governativi a pronunciar quelle frasi,

          uno addirittura nell’ufficio di Begin a Gerusalemme: in presenza del suo portavoce,
          signor  Kadishai,  e  del  tipo  addetto  al  controllo  dei  giornalisti  stranieri,  Ze’ev
          Chafets.
               Fu una lunga intervista, la mia con Sharon. La prima seduta durò dieci ore, cioè

          dalle nove del mattino alle nove di sera escluse le due ore durante le quali dovette
          recarsi con l’elicottero a Gerusalemme. La facemmo in inglese, lingua che egli parla
          bene,  e  in  presenza  del  suo  consigliere  Uri  Dan  che  la  registrò  come  me.  Sharon
          sembrava  assolutamente  rilassato,  sicuro  di  sé,  ansioso  di  spiegarsi.  Mentre  sua
          moglie continuava ad offrire ogni sorta di cibo che io non potevo toccare e che lui
          divorava (mangia sempre e per questo è così mostruosamente grasso), rispondeva
          alle  mie  domande  con  estrema  cortesia.  Insomma  niente,  fuorché  la  sua  voce
          militaresca  e  tonante,  tradiva  il  suo  gusto  per  la  violenza.  Non  si  arrabbiò  mai

          sebbene  io  mi  arrabbiassi  spesso.  Ma,  quando  io  mi  arrabbiavo,  mi  fissava  con
          occhi che facevan paura. L’uomo ha occhi che fanno paura. Azzurri, freddi, affilati
          come coltelli che si affondano nella tua carne per seviziarla e strapparla. Ora, ogni
          volta che penso al massacro di Sabra e Chatila, vedo quegli occhi e odo quella voce
          che dice: «Gli ho regalato la vita, a quegli assassini. Sono vivi perché io ho scelto di

          lasciarli vivi. Ma tanta fortuna non costituisce affatto una garanzia per il futuro. Guai
          a loro se riprenderanno le loro attività sanguinose, anche in Paesi lontani da Israele.
          Guai a loro».


          Poi  odo  quella  voce,  stavolta  alla  televisione,  il  giorno  prima  dell’inizio  del
          massacro, e dice: «I duemila terroristi che rimangono nei campi palestinesi di Beirut
          saranno  eliminati!».  Così  ricostruire  la  meccanica  dell’eccidio  diventa  facile

          quanto la domanda: di chi è, oggi, l’Olocausto? Basta. Ho finito.           20
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