Page 100 - Oriana Fallaci - La vita è una guerra ripetuta ogni giorno
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libanesi), e poi attraverso la pineta dove si svolgevano i combattimenti. E fu in quel
punto sgradevole (sgradevole perché quando eri in quella pineta ti sentivi come un
topo in trappola e maledicevi te stesso per essere andato a ficcarti lì dentro), che
trovai la prima goccia di verità. Infatti, se la Galerie Semaan era il regno dei
francotiratori palestinesi, vili in quanto sparavano spesso sulla povera gente in fuga
con le valige e i bambini, la pineta era la fortezza inespugnabile dei soldati
palestinesi: non riuscivano proprio a passare, lì, gli israeliani. Si battevano per
cento metri, cinquanta, venticinque, e appena riuscivano a conquistarli li
riperdevano. Sicché Sharon mente quando dice che non entrava a Beirut perché non
voleva entrarci. E mi indigna. Mi indigna due volte quando vedo che al primo
pretesto c’è entrato: come un ladro.
Sì, un ladro. Un ladro che entra in una casa senza porte, senza sorveglianza, cioè
dopo che l’Olp se n’è andato, dopo che le Forze internazionali sono partite, e onde
realizzare il suo antico sogno: sterminarli tutti quei palestinesi, sgozzarli senza
perdere un solo uomo. Il generale Sharon è molto orgoglioso del suo esercito: quasi
nella misura in cui lo è di sé stesso. Lo chiama «uno degli eserciti migliori del
mondo». Ma che razza di esercito è un esercito che ruba una città come un ladro,
cioè in assenza del nemico, e per organizzare un massacro? A me sembra che sia un
esercito bravo soltanto quando affronta i deboli e i fantasmi. E quanto ai nuovi
bombardamenti con cui Sharon ha ucciso altri cento civili, dico: che razza di
generale è un generale che ha bisogno dell’artiglieria per occupare una città inerme?
Sharon dice che in guerra uno cerca di salvare i suoi soldati e che per gli israeliani
anche la vita di un soldato conta. Giusto, ma la vita degli altri? Quella non conta?
No: per Sharon, per i suoi connazionali la vita è preziosa soltanto quando è una vita
israeliana.
Vidi molte altre cose a Beirut Ovest, trovai molte altre gocce di verità. Vidi quel
che Sharon aveva fatto e faceva nel quartiere di Fakhani, nel quartiere dei palestinesi
dove non esistevano neanche più le strade: Coventry 1941, Berlino 1945. Vidi quel
che Sharon aveva fatto e faceva nel quartiere di Hamra, il centro della città… Vidi
tutta la ferocia del suo assedio, le infamie, gli eccessi che nella mia intervista egli
nega. E poi, nei giorni seguenti, a Beirut Est, vidi i suoi soldati. Cioè parlai con loro.
E non ne trovai uno che mi dicesse: «Questa sporca guerra. Non mi piace questa
guerra». In Vietnam non li contavo nemmeno i soldati che avevano la coscienza e il
coraggio di dirmi: «Signora, non mi piace questa guerra. Signora, che ci faccio io in
questa sporca guerra?». Nel Libano, neppure uno. Una notte andai in pattuglia con
loro. Infilai una giacca antiproiettile, misi in testa un elmetto, vergognandomi un po’
perché non ci tenevo a essere scambiata per un soldato israeliano, mi sembrava di
partecipare a un misfatto, e salii su uno dei loro carri armati. Per circa tre ore rimasi
con loro lungo la linea di demarcazione e al museo. Ma neppure lì, col buio e con la
morte in faccia, trovai uno che mi confidasse: «All’inferno questa guerra». In quei
giorni bisognava spostarsi a Tel Aviv e riesumare la storia del colonnello Gheva,
l’unico che abbia detto basta, per trovare qualcuno che parlasse almeno di «guerra
ingiustificata». Qualcuno, in quei giorni, non tanti come sembrava a guardare le