Page 28 - Oriana Fallaci - La vita è una guerra ripetuta ogni giorno
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tornatevene a casa). Ci fermammo. Vennero lentamente verso di noi. Chiedemmo se

          avevano  bisogno  di  nulla.  Avevamo  arance  e  scatolette.  La  signora  della  Croce
          Rossa ne porse. Risposero di no, scuotendo lentamente la testa. «Non possiamo far
          nulla per voi?» chiese il medico che parlava ungherese. Di nuovo scossero la testa.
          Ci guardavano con sguardi dolorosi, senza parlare. Quando ripartimmo ci salutarono
          agitando le mani e, sempre in silenzio, tornarono intorno al loro Cristo di gesso.

               Eravamo  depressi.  Nessuno  di  noi  aveva  voglia  di  parlare.  «Chissà  se
          arriveremo  a  Budapest»  disse  Orsini.  Subito  dopo  vedemmo  i  carri  armati  russi.
          Stavano  in  mezzo  alla  strada,  uno  dopo  l’altro,  e  bloccavano  completamente  il
          passaggio. Erano tre Panzer, con le bocche delle mitraglie puntate verso di noi. Sulla
          torretta i soldati tenevano i fucili spianati, pronti a sparare.

               Fermammo  la  macchina.  Scesi  insieme  a  Orsini  e  all’interprete.  I  fucili  si
          spostarono lentamente, tenendoci sotto la mira. Nessuno disse nulla. Quattro soldati
          col parabellum imbracciato stavano intorno a un falò di foglie secche, al limite della
          strada, e ci guardavano avvicinare senza muoversi. Non sembravano neppure soldati:
          ma  strane,  orrende  creature  vestite  da  soldati.  Erano  sporchi,  abbrutiti  e  ostili.
          Avevano  facce  gialle,  schiacciate,  da  mongoli.  I  loro  occhi  piccoli  e  neri  ci

          fissavano  senza  espressione.  Al  solo  guardarli  mi  sentii  tremare  le  gambe.  Non
          avevano proprio nulla di umano e, sebbene fossero abbastanza penosi così piccoli, e
          sudici, e infreddoliti intorno a quel fuoco, non riuscivo a provare pietà per loro; ma
          solo paura e disgusto.
              «Siamo del corpo diplomatico e dobbiamo andare a Budapest» disse l’interprete
          russo.  Nessuno  dei  quattro  si  mosse.  Nessuno  rispose.  «Questi  sono  i  nostri

          passaporti  e  questo  è  il  nostro  documento  per  passare»  aggiunse  l’interprete.
          Silenzio. «Possiamo parlare con un ufficiale?» insistette l’interprete. Il più vecchio
          posò allora il suo parabellum e venne verso di noi. Era cieco di un occhio ed aveva
          la faccia incrostata di terra. Guardò appena il foglio con l’occhio sano e acquoso;
          poi, senza aprire bocca, si tolse il berretto e cominciò a grattarsi la testa. Aveva una
          testa nera e schiacciata e i capelli lucidi, quasi incrostati di sangue. Si grattava con

          tutt’e due le mani, furiosamente, poi si guardava le unghie e tornava a grattarsi. Tutto
          questo durò almeno dieci minuti. Quando si fu grattato abbastanza, ci voltò le spalle,
          raccattò  il  suo  parabellum  e,  puntandocelo  contro  lo  stomaco,  ci  fece  segno  di
          andarcene.
               Non volevamo andarcene. Volevamo andare a Budapest e ci faceva impazzire di
          rabbia il fatto che solo quattro bestie vestite da militari non volessero ascoltare la

          nostra domanda. «Non c’è un ufficiale?» ripeté Orsini in tedesco. Allora, da un carro
          armato, scese un sergente. Non aveva un aspetto migliore degli altri, ma aveva una
          voce.  Disse  in  tedesco:  «Ci  vuole  un  visto  sovietico,  ora.  Via!».  Risalimmo  in
          macchina, pieni di amarezza. Ci sembrava davvero scandaloso di dover esibire un
          visto sovietico per attraversare l’Ungheria, ma io volevo andare a Budapest e chiesi

          a Orsini di accompagnarmi all’ambasciata sovietica di Vienna a chiedere il visto.
          Un’ora dopo eravamo all’ambasciata sovietica.
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