Page 30 - Oriana Fallaci - La vita è una guerra ripetuta ogni giorno
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taceva, ma dopo tre chilometri appena udimmo un rumore spaventoso: il rumore dei
carri armati che vengono avanti.
Giuseppe sbiancò. Io mi sentii mozzare il respiro. Ci guardammo un momento e
poi Giuseppe girò la macchina e tornò precipitosamente indietro. Il rumore dei carri
armati era sempre più forte e più vicino, dovevano essere molti per fare tanto rumore
e mi sembrava di essere dentro a uno di quei sogni che assomigliano a un incubo,
quando si vuole scappare e il fiato ci manca, le gambe si paralizzano e il rumore dei
passi che ci inseguono diventa sempre più nitido e vicino.
«Vengono» diceva Giuseppe. «Maledetti, dannati, carogne, vengono.» E pigiava
il piede sull’acceleratore. Quei tre chilometri ci sembrarono trecento, quei cinque
minuti ci sembrarono tre anni. Finalmente fummo sulla terra di nessuno, e gli
ungheresi della dogana correvano, scappavano come pazzi verso la frontiera
austriaca, e tutto era così spaventoso e assurdo. Mancavano appena due chilometri
quando Giuseppe mi lasciò. «Scusami, signorina italiana,» mi disse «scusami se non
ti ho portato dai tuoi amici. Non è stata colpa mia. Scusami se ti lascio, ma devo
tornare a Magyarovar. Ho la mia famiglia laggiù.»
Io stavo male, avevo una grande voglia di piangere e mi chiedevo come avrebbe
fatto a tornare a Magyarovar con tutti quei carri armati russi che bloccavano la
strada. Giuseppe capì. «Ce la farò, signorina italiana, non piangere. Passerò tra i
campi. Loro sono furbi ma io sono più furbo di loro. Addio, signorina. Grazie per la
tua cioccolata. Spero di vederti ancora un giorno, quando avremo liberato il mio
Paese.»
Proseguii a piedi fino alla frontiera e ormai non avevo più voglia di correre. Ero
sopraffatta da tanto terrore e tanta ingiustizia e mi dicevo che anche questa era finita,
come finiscono tutte le cose nobili e belle, e che il mondo è una sporca favola dove i
cattivi restano sempre impuniti ed hanno il sopravvento.
Non ho rivisto Giuseppe, non ho saputo se è arrivato vivo a Magyarovar.
Nessuno ha potuto raccontarmi nulla di lui. Ma ho rivisto Hollo e Ludmilla prima
che la cortina di ferro calasse ancora fra loro e i popoli liberi, come in una tragica
farsa. Sabato pomeriggio, quando i carri armati russi erano ormai arrivati alla
frontiera e stavano a cinquecento metri dall’edificio della dogana, mi prese,
irresistibile, il desiderio di rivederli. Ero con Moroldo, con Corradi, Vecchiato, De
Simone, tutti giornalisti italiani, e con Richard Kilian, l’inviato che è venuto a
sostituire Noel Barber. «Andiamo da loro,» dissi «non può succederci nulla,
arrivando solo laggiù.»
«Andiamo» dissero, e insieme ci avviammo a piedi.
Erano le cinque del pomeriggio. Faceva tanto freddo e quel tramonto e quel
freddo ci sembravano i simboli di questo eroico Paese schiacciato dalla prepotenza.
Arrivammo all’edificio giallo, i carri armati erano lì, fermi; con le mitragliatrici
puntate. Circondavano tutta la casa. Potevamo vedere benissimo i soldati russi che
controllavano con i binocoli i nostri movimenti. Richard Kilian disse: «Nascondete
le macchine fotografiche. Sparano così volentieri alle macchine fotografiche».