Page 29 - Oriana Fallaci - La vita è una guerra ripetuta ogni giorno
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Orsini chiese di parlare con un diplomatico che conosceva, ma quando seppero

          la  ragione  della  visita,  dissero  che  quel  diplomatico  non  c’era.  Orsini  chiese  di
          parlare  con  un  altro  funzionario,  e  ci  dissero  che  nemmeno  questo  c’era.  Orsini
          chiese  di  parlare  con  l’ambasciatore,  e  ci  dissero  che  l’ambasciatore  non  era  a
          Vienna. Alla fine fummo ricevuti da un funzionario. Era un giovanotto biondo, con la
          faccia asiatica e ostile. Ci salutò con fredda cortesia.

              «Stavamo andando a Budapest e i soldati sovietici ci hanno sbarrato la strada
          dicendo che è necessario il visto sovietico» disse Orsini.
              «Non  capisco  perché  dovremmo  darvi  un  visto  sovietico.  Non  andate  mica  in
          Urss. Andate in Ungheria» disse il funzionario.

              «Lo  sappiamo,»  disse  Orsini  «ma  il  visto  sovietico  ci  è  stato  chiesto  da  un
          soldato sovietico sulla strada che porta a Budapest.» «Non mi risulta che ci siano
          soldati sovietici sulla strada che porta a  Budapest» disse il funzionario. «Ci sono
          soldati  sovietici  su  carri  armati  sovietici  ed  esigono  un  visto  sovietico  per  farci
          passare»  ripeté  Orsini.  «Mi  trovo  costretto  a  dubitare  che  siano  i  carri  armati
          sovietici a sbarrare la strada di Budapest. Forse vi siete sbagliati. Erano carri armati

          ungheresi,» disse il funzionario «è necessario rivolgersi alla Legazione ungherese.»
              «La Legazione di Ungheria ci ha già dato il visto. Ma i soldati russi esigono il
          visto  sovietico»  disse  Orsini.  «Non  sono  autorizzato  a  commentare  questa  strana
          richiesta» disse il funzionario.
              «Nemmeno a commentare il fatto che trenta giornalisti stranieri siano prigionieri

          dei russi in terra ungherese?» chiesi allora al funzionario. Egli arrossì leggermente.
          «Non mi risulta che giornalisti stranieri siano prigionieri dei russi in Ungheria,» egli
          rispose «sono costretto a dubitare della sua accusa.» Disse ancora qualcos’altro, ma
          io  non  lo  sentii,  perché  me  ne  andai  sbatacchiando  l’uscio,  mentre  continuava  a
          parlare.

               Dunque, non sarei andata a Budapest e non avrei avuto modo di vedere i miei
          colleghi  bloccati  a  Magyarovar.  L’unica  speranza  era  che  qualcuno  riuscisse  a
          scappare. Tutte le Legazioni dei Paesi ai quali appartenevano i giornalisti sequestrati
          stavano  creando  incidenti  diplomatici  per  farli  rilasciare,  ma  non  c’era  modo  di
          ottenere qualcosa.

               Le famiglie ci telefonavano angosciosamente da Milano, chiedendo notizie e noi
          non sapevamo che rispondere. La moglie di Sorrentino era giunta in automobile da
          Roma con la speranza di parlare al telefono con lui. Ma Sorrentino e gli altri non
          potevano  nemmeno  telefonare  e  gli  ufficiali  sovietici  rifiutavano  persino  di
          parlamentare  con  loro.  Tornai  a  Nickelsdorf  con  l’assurda  speranza  di  arrivare  a
          Magyarovar. Forse Giuseppe era tornato, forse mi accompagnava. Giuseppe era al

          posto di blocco e mi venne incontro gridando. «Alle tre e mezzo li portano a Györ,»
          mi disse «poi li caricano su un treno e li mandano a Budapest. Vuoi venire con me?
          Forse  riuscirai  a  vederli.»  «Andiamo»  dissi.  Salimmo  sulla  vecchia  Volkswagen,
          passammo  ancora  il  posto  di  blocco  ungherese,  ci  inoltrammo  per  la  strada  che
          avevo  fatto  poche  ore  prima.  C’era  un  grande  silenzio  intorno,  anche  Giuseppe
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