Page 24 - Oriana Fallaci - La vita è una guerra ripetuta ogni giorno
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calmo ormai.
Ma quando giungemmo all’aeroporto di Vienna, il funzionario della dogana ci
guardò con compassione. Non avremmo potuto portare i medicinali a Budapest,
disse, perché la frontiera era chiusa di nuovo e nessuno andava o tornava da
Budapest. Andammo alla Legazione italiana. Ci dissero le medesime cose. Andammo
all’albergo dove c’erano i giornalisti e ripeterono che era impossibile. Trenta
colleghi erano bloccati a Budapest e si temeva per la loro sorte. Tutte le linee
telefoniche erano interrotte, si ignorava tutto di loro. Persino un automezzo della
Croce Rossa era stato mitragliato. «Se per miracolo tu riuscissi a passare, riusciresti
solo a darci un’angoscia di più. Capisci?» Capivo, certamente. Ma non volevo
crederci. Pensavo solo che volevo andare a Budapest, che volevo scrivere le cose
che avrei visto a Budapest. Anche Moroldo voleva andare a Budapest per fare le
fotografie. Pregammo l’addetto stampa della Legazione italiana di sdoganare per noi
i medicinali fermi all’aeroporto di Vienna e, noleggiato un tassì, ci avviammo verso
la frontiera di Nickelsdorf.
Nickelsdorf è un paesino di poche centinaia di abitanti, a centocinquanta
chilometri da Vienna. Sorge in mezzo a una pianura come quella lombarda, ma più
desolata. Ci sono pochissimi alberi e per chilometri e chilometri si cammina senza
incontrare nessuno. Il nostro autista era vecchio e aveva paura. Non voleva andare a
Nickelsdorf perché pensava che lo costringessimo a passare la frontiera,
minacciando di non pagarlo se non ubbidiva. Arrivammo a Nickelsdorf a forza di
preghiere. Erano le sette di sera e nevicava. La strada era un immenso pantano di
neve sudicia e sfatta e tragiche ombre di uomini in divisa si muovevano sguazzando
nel buio. Erano soldati austriaci, doganieri e giornalisti. Tutti volevano andare a
Budapest e non [ci] riuscivano. I carri armati russi erano giunti a sette chilometri dal
confine. Erano cinque Panzer messi di traverso alla strada, con le mitragliere pronte
a sparare, in un’insormontabile barriera di ferro. Di Alberto Cavallari, Indro
Montanelli, Gatti, Lamberti Sorrentino, Giorgio Altarass, Giovanni Dall’Ongaro,
Mangili, Fossati, i giornalisti italiani che volevano tornare a Vienna per telefonare i
loro servizi, nessuna notizia.
Ci avvicinammo alla sbarra di legno che chiude il confine. Scrutammo nel buio
per scorgere se qualche automobile si avvicinava. Alla sbarra erano appoggiati
alcuni soldati austriaci e, alla luce dei fari, potevo vedere le loro facce livide di
freddo e di angoscia. Uno parlava inglese. «Scoppia la guerra» disse. «Nessuno mi
leva l’idea che scoppia la guerra.» Il cappuccio dell’impermeabile gli era scivolato
sulle spalle. «Si copra la testa, piuttosto. Ha i capelli fradici» dissi. Mi dava fastidio
che pensasse a quello che poteva succedere mentre di là si ammucchiavano i
cadaveri e noi eravamo al sicuro. Lui fece una spallata. «Li avrò più fradici quando
sarò morto» rispose. «Se vengono avanti noi saremo i primi a morire.» Un francese
piccolo e grasso si avvicinò. Si batteva i pugni nella fronte ed era sconvolto. La
mattina avanti era venuto a Vienna come corriere diplomatico. Sua moglie e i suoi
figli erano rimasti a Budapest e non poteva raggiungerli. Si chiamava Roger Chéreau,
supplicava che lo lasciassero passare. Aveva il passaporto diplomatico e avrebbero