Page 26 - Oriana Fallaci - La vita è una guerra ripetuta ogni giorno
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sentivo,  potevo  andare  con  loro.  Me  la  sentivo,  e  come,  e  partii  nuovamente  alla

          volta di Nickelsdorf. Eravamo in sette su due automobili. C’era anche un medico di
          origine  ungherese,  il  direttore  della  Fiat  a  Vienna,  una  crocerossina  e  il  primo
          segretario della  Legazione italiana, Andrea  Orsini  Baroni. Avevamo documenti di
          corriere  diplomatico  e  forse  ce  l’avremmo  fatta.  Forse  a  Magyarovar  avremmo
          trovato  i  giornalisti  italiani  e  avremmo  potuto  fare  qualcosa  per  loro.  Cavallari,
          Altarass, Sorrentino e Gatti erano fermi a Magyarovar, e sarebbero stati liberati solo

          lunedì. C’era anche Noel Barber, l’inglese del «Daily Express», che a Budapest era
          stato  colpito  alla  testa  da  una  pallottola  sovietica.  Gli  altri  erano  a  Budapest,
          rifugiati  dentro  la  Legazione  italiana.  Passammo  il  confine  pieni  di  speranza  e,
          insieme, con un senso di gelo. Stavamo entrando in Ungheria e da questo momento
          tutto poteva succedere. La strada era sgombra davanti a noi. I campi erano coperti di
          neve. Quei campi, mi disse Orsini, erano pieni di mine. Le avevano messe i russi,
          per quelli che cercavano di espatriare clandestinamente. Proseguimmo per qualche

          minuto e poi fummo davanti all’edificio della dogana ungherese.
               C’erano  alcuni  ragazzi  col  mitra  davanti  alla  sbarra  del  secondo  passaggio,  e
          questi erano i primi ungheresi che vedevamo. Alcuni erano vestiti da soldati magiari,
          con gli stivali e la giacca imbottita. Altri con le uniformi russe, alle quali erano state

          strappate le mostrine con la stella rossa. Altri erano in borghese e non sembravano
          soldati né rivoluzionari, tanto avevano facce pacate e gentili. «Cljen cszabadsag!»
          (Viva la libertà!) mi disse un ragazzo bruno aiutandomi a scendere dalla automobile.
          Avrà avuto sì e no diciotto anni. La sua faccia era rosea e ombreggiata appena da una
          lieve peluria. Camminava a fatica, come uno che ha sonno. Spiegò che non dormiva
          da  una  settimana  e  ci  fece  entrare  nell’ufficio  prima  di  chiamare  il  suo  capo.  La
          stanza  era  piccola.  Giovani  rivoluzionari  stavano  ammassati  per  terra,  reggendo  i
          parabellum  fra  le  ginocchia,  e  ci  guardavano  in  silenzio.  Quando  tirai  fuori  una

          sigaretta uno si alzò di scatto e venne ad accendermela con un inchino. «Ora viene il
          professor  Hollo»  disse  il  ragazzo.  I  colleghi  mi  avevano  parlato  con  molto
          entusiasmo del professor Hollo. Egli è uno dei capi rivoluzionari di Magyarovar. È
          un  uomo  fra  i  quaranta  e  i  cinquanta  anni,  molto  civile.  Ha  studiato  due  anni
          all’Università di Roma e parla bene l’italiano. Un tempo insegnava al liceo le lingue

          italiana, francese, inglese e tedesca. Da sei anni però insegnava il russo, perché il
          governo  russo  aveva  reso  obbligatorio  lo  studio  della  lingua  nelle  scuole.  «La
          insegno  con  molta  umiliazione»  dice  Hollo.  Dal  1949  egli  è  uno  dei  capi  del
          movimento nazionalista che ha organizzato l’insurrezione in Ungheria. Politicamente
          lo potremmo definire un liberale socialista. È un uomo coraggioso. Si deve a lui se i
          giornalisti occidentali hanno potuto recarsi i giorni scorsi a Budapest. Il professor
          Hollo ne assunse  la  responsabilità  sebbene  fosse  proibito.  Nessuno  dà  fastidio  ai

          russi quanto i giornalisti e i fotografi occidentali che si sono recati in Ungheria per
          descrivere le loro infamie.
              «Buongiorno, signori» disse il professor Hollo inchinandosi davanti a Dogliotti e
          agli  altri.  È  piccolo  e  magro,  con  gli  occhi  azzurri  e  la  faccia  scavata.  Non  era
          vestito  in  divisa.  Indossava  un  «doppiopetto»  grigio  con  la  fascia  tricolore  al
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