Page 23 - Oriana Fallaci - La vita è una guerra ripetuta ogni giorno
P. 23

«“È molto umiliante la dittatura, capisce?”





                                                                                      Lo capivo benissimo.

                                                                  Anche gli italiani ne sanno qualcosa.»



          Non sono riuscita a entrare a Budapest. Non ho visto la città straziata, né i corpi dei

          gerarchi comunisti penzolare impiccati dagli alberi di piazza della Repubblica. Non
          ho  visto  le  donne  di  Budapest  piangere  sui  figli  morti  in  combattimento,  ferme
          dinanzi  ai  cadaveri  circondati  di  candele.  Ma  ho  passato  due  volte  la  frontiera
          ungherese, per due volte mi sono spinta nel Paese più martoriato d’Europa, quando
          ormai  più  nessuno  osava  avventurarsi  laggiù.  E,  sabato  3  novembre,  ho  visto
          qualcosa  che  è  più  tragico,  e  disperato,  degli  spettacoli  orrendi  di  Budapest.  Ho
          visto morire, per la seconda volta, la libertà ungherese. Ho visto la cortina di ferro

          calare per la seconda volta su un popolo eroico. Ho visto i carri armati russi puntare
          le  loro  mitragliere  su  creature  inermi.  Ho  seguito  il  dramma  dei  miei  colleghi
          giornalisti sequestrati dai sovietici. Ho assistito alla sconfitta senza rimedio dei miei
          amici  ungheresi,  del  professor  Hollo,  della  partigiana  Ludmilla,  del  vecchio
          Giuseppe, che mi salutarono con le lagrime agli occhi, come chi è sicuro di andare a

          morire. Ora non so cosa è successo di loro. Non so se stanno ancora aspettando che i
          russi vadano ad ammazzarli. Ma so che non li dimenticherò mai e quasi mi vergogno
          al pensiero che la sera, quando io vado a dormire in un letto, loro stanno in terra,
          abbracciati  a  un  mitra,  covando  tutta  la  disperazione  e  la  rabbia  di  un  popolo
          schiacciato dalla crudeltà e dalla violenza.
               Quando, all’alba di venerdì 2 novembre, salii sull’aereo che mi avrebbe portato

          a Vienna, ero sicura di raggiungere Budapest. Tutto il mondo credeva che l’Ungheria
          fosse riuscita a conquistare la sua indipendenza. La frontiera era aperta: i giornalisti
          la passavano ogni giorno con le loro automobili e i tassì di Vienna. Viaggiavo col
          fotografo Gianfranco Moroldo e non sapevo di andare a fare una corrispondenza di
          guerra. Credevo di andare a fare una corrispondenza di pace, perché mi dicevano
          che  non  c’era  altro  pericolo,  ad  avventurarsi  laggiù,  che  quello  di  ricevere  una

          fucilata  per  sbaglio.  Portavo  con  me  una  lettera  e  tre  pacchi  da  consegnare  al
          cardinale  Mindszenty:  penicillina,  streptomicina  e  disinfettanti  per  i  feriti  che
          giacevano negli ospedali di Budapest e stavano lentamente morendo, sulle brande,
          coperti  di  stracci,  per  mancanza  di  medicinali.  Tutto  sembrava  così  semplice,  e
   18   19   20   21   22   23   24   25   26   27   28