Page 25 - Oriana Fallaci - La vita è una guerra ripetuta ogni giorno
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dovuto  lasciarlo  passare.  Si  sarebbe  ucciso,  diceva,  se  non  tornava  a  Budapest.

          Nessuno lo ascoltava. C’erano molte persone nella piazza e tutti dicevano qualcosa,
          e  nessuno  ascoltava.  Poi  un  giovanotto  svizzero,  con  la  fascia  d’infermiere  sul
          braccio sinistro, disse: «Io provo a passare. Sono della Croce Rossa. Non possono
          farmi nulla». Si fece timbrare i documenti, salì sull’ambulanza e partì. Tornò dopo
          mezz’ora, con una spalla squarciata da un colpo di baionetta. Appena sceso dalla
          macchina,  a  sette  chilometri  dal  confine,  un  soldato  russo  l’aveva  colpito.  Il

          giovanotto soffriva, ma poteva parlare. Disse che sulla via del ritorno aveva scorto
          dei  fari  di  automobile.  Forse  qualcuno  era  riuscito  a  superare  il  blocco  dei  carri
          armati e ora arrivava. Ci precipitammo verso la sbarra. Lungo la strada si vedeva
          davvero una luce. Io guardavo i fari con ansia e speravo con tutto l’egoismo di cui
          siamo capaci quando qualcosa ci addolora (ma era egoismo?) che in quella macchina
          ci  fossero  i  miei  colleghi  italiani.  Quando  la  macchina  frenò,  corsi  a  guardare.
          Chiamai per nome i miei amici. Pregai, assurdamente, che fossero loro. Non erano

          loro.
               C’era un vecchio, nell’automobile, e due bambini. Il vecchio era ungherese, e i
          bambini  austriaci.  Il  vecchio  li  aveva  portati  in  salvo  sulla  sua  Volkswagen,
          attraverso una strada fra i campi. Aveva la faccia disfatta e la barba lunga, gli occhi

          febbricitanti.  Indossava  un  impermeabile  di  plastica  nero  ed  era  incredibilmente
          sudicio.
              «Sono  una  giornalista  italiana»  dissi,  e  avevo  appena  finito  di  pronunciare  la
          frase che il vecchio mi abbracciò. «Io parlo italiano. Mia madre è italiana. Come
          sono  felice!»  diceva.  Lo  condussi  dentro  l’osteria  del  confine  e  cominciai  a
          interrogarlo. Come aveva fatto a passare? Era scappato? Sapeva nulla dei giornalisti

          bloccati oltre il confine?  Il vecchio mi guardò con fierezza.  Mi disse che lui non
          scappava, solo i criminali comunisti scappavano. Faceva la spola da Magyarovar al
          confine per mettere in salvo i bambini. Si chiamava Giuseppe Rudich. Non sapeva
          nulla  dei  giornalisti  italiani,  ma  sapeva  che  c’erano  cinque  uomini  che  parlavano
          italiano a Magyarovar, forse erano loro. Ora tornava di là e fra qualche ora avrebbe
          cercato di ripassare e darmi notizie precise. Intanto stessi tranquilla. Io non potevo

          stare  tranquilla.  A  Magyarovar  erano  successi  episodi  crudeli  nei  giorni  passati.
          Ottanta fra donne e bambini erano stati mitragliati dai comunisti. Ma lo ringraziai e
          gli  chiesi  se  avesse  bisogno  di  qualcosa.  Giuseppe  rise  spalancando  la  bocca
          sdentata  e  mi  domandò  se  avevo  della  cioccolata,  anche  solo  un  pezzettino  di
          cioccolata  da  portare  ai  suoi  nipotini. Avevo  la  cioccolata,  l’avevo  comperata  a
          Zurigo  per  portarla  ai  bambini  di  Budapest.  Gliela  detti  tutta.  Giuseppe  la  prese
          tremando e poi scoppiò a piangere. Le lagrime gli scendevano in bocca, scivolando

          fra le rughe, e non si curava di asciugarle. «Grazie, signorina» disse, «se non mi
          ammazzano stanotte, domani ti porto dai tuoi amici a Magyarovar.»
               Tornammo a Vienna con una grande tristezza addosso. Ma a Vienna mi aspettava
          una  notizia  consolante.  Il  professor  Dogliotti  era  giunto  con  l’autocolonna  della
          Croce Rossa e avrebbe tentato di passare la frontiera per organizzare il suo ospedale

          a  Budapest.  C’era  un  posto,  per  me,  sulla  macchina  della  Legazione  e,  se  me  la
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