Page 27 - Oriana Fallaci - La vita è una guerra ripetuta ogni giorno
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braccio  e  non  aveva  armi  addosso.  Mi  piacque  subito  perché  aveva  la  faccia

          straordinariamente  perbene  e  somigliava  a  mio  padre.  Quando  gli  spiegammo  che
          volevamo raggiungere Budapest assunse un’espressione allarmata.
               Quando gli chiesi se sapeva nulla dei giornalisti italiani, scosse la testa. «Lei
          scrive,  vero?»  «Sì.»  «Spero  che  scriverà  bene  di  noi.»  «Sì,  professore.»  Rise.

          «Allora  non  è  obiettiva.  Un  giornalista  deve  essere  obiettivo.»  «Sono  obiettiva
          raccontando quello che succede,» dissi «quello che succede in Ungheria mi piace e
          molto. Escluso i russi.» Rise ancora. «Ne sono felice. È molto umiliante, vede, che
          un popolo asiatico domini un popolo di millenaria civiltà come quello ungherese. È
          molto umiliante la dittatura, capisce?»  Lo capivo benissimo. Anche gli italiani ne
          sanno  qualcosa.  Tutto  questo  mi  ricordava  quello  che  successe  dodici  anni  fa  in
          Italia e glielo dissi. Hollo annuì. «Lo so. Abbiamo avuto il nostro 25 luglio e ora sta
          per venire il nostro 8 settembre. Ma a voi è andata bene. E noi, invece, non sappiamo

          come andrà a finire. Speriamo che Dio ci protegga.» Restò un po’ zitto, come se non
          avesse la forza di continuare. Poi alzò bruscamente la testa. «Ora» disse «le presento
          una donna coraggiosa.»
               La donna era una bambina. Dimostrava appena quindici anni, sebbene ne avesse,

          come seppi dopo, ventuno. Indossava calzoni da sciatrice e una giacca di cuoio, e
          portava il parabellum a tracolla. Era bassa e sottile, con una faccia bellissima e un
          dolce sorriso. Aveva combattuto a Budapest ed era una studentessa del Politecnico.
          Si chiamava Ludmilla Thurg. Quella notte era venuta da Györ guidando un camion
          insieme  a  un’altra  ragazza,  per  portare  medicinali  e  roba  da  mangiare.  La  sua
          famiglia era rimasta a Budapest e lei non ne sapeva più nulla. Il suo fratellino, di
          dodici anni, era stato fucilato dai russi. Assaliva i carri armati con le bottiglie di

          benzina infuocata. «Era molto coraggioso,» disse «sono molto fiera di lui.» Le chiesi
          se molti studenti erano morti. «Non molti,» disse Ludmilla «duemila.» Le chiesi cosa
          avrebbe  fatto  ora  che  i  russi  dominavano  ancora  il  Paese.  «Combatterò,»  disse
          «finché  non  mi  ammazzeranno.»  Parlava  con  grazia,  come  se  si  trattasse  di  cosa
          senza importanza. Poi mi tese la mano e se ne andò, chiedendomi scusa. Subito dopo
          ci  rimettemmo  in  viaggio.  Hollo  era  riuscito  a  procurarci  un  interprete  russo  e

          un’ambulanza della Croce Rossa che ci avrebbe scortati.
               La strada che porta a Magyarovar era deserta. Incontrammo solo qualche donna
          in bicicletta e un camion di insorti. Ogni tanto, un uomo appoggiato al muro, con le
          mani in tasca e lo sguardo perduto nel vuoto. Non c’era nessuno nei campi coperti di
          neve,  nessuno  lungo  la  ferrovia  dove  i  treni  abbandonati  stavano  fermi  in  un
          interminabile nastro di ferro. Ci sembrava di attraversare un Paese di fantasmi o di

          morti perché non si sentiva nemmeno un suono, o un rumore qualsiasi. Dove era la
          folla  esultante  che  qualche  ora  prima  salutava  i  giornalisti  gridando:  «Cljen
          cszabadsag».  Erano  tutti  nascosti,  a  struggersi  di  terrore  dietro  le  finestre  con  le
          persiane  abbassate.  Tacevano  come  bestie  legate.  Solo  attraversando  un  villaggio
          trovammo qualche persona. Erano contadini, dall’aria contegnosa. Stavano intorno a
          un Cristo di gesso e aspettavano. Non so cosa, ma aspettavano. Sul muro di una casa

          c’era  una  scritta  fresca  a  caratteri  stampatello: RUSKI,  IDITE  DOMOI  (Russi,
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