Page 150 - Oriana Fallaci - Solo io posso scrivere la mia storia
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mattino non faccio mai. Ho acceso la TV. Bè, l’audio non funzionava. Lo schermo, sì.

          E su ogni canale, qui di canali ve ne sono circa cento, vedevi una torre del World
          Trade  Center  che  dagli  ottantesimi  piani  in  su  bruciava  come  un  gigantesco
          fiammifero.  Un  corto  circuito?  Un  piccolo  aereo  sbadato?  Oppure  un  atto  di
          terrorismo  mirato?  Quasi  paralizzata  son  rimasta  a  fissarla  e,  mentre  la  fissavo,
          mentre mi ponevo quelle tre domande, sullo schermo è apparso un aereo.  Bianco,
          grosso. Un aereo di linea. Volava bassissimo. Volando bassissimo si dirigeva verso

          la  seconda  Torre  come  un  bombardiere  che  punta  sull’obbiettivo,  si  getta
          sull’obbiettivo.  Sicché ho capito. Voglio dire, ho capito che si trattava d’un aereo
          kamikaze  e  che  per  la  prima  Torre  era  successo  lo  stesso.  E,  mentre  lo  capivo,
          l’audio è tornato. Ha trasmesso un coro di urla selvagge. Ripetute, selvagge. «God!
          Oh,  God!  Oh,  God,  God,  God!  Gooooooood!  Dio!  Oddio!  Oddio!  Dio,  Dio,
          Dioooooooo!»  E l’aereo bianco s’è infilato nella seconda  Torre come un coltello
          che si infila dentro un panetto di burro.



          Quell’11 settembre pensavo al mio bambino, dunque, e superato il trauma mi dissi:
          «Devo dimenticare ciò che è successo e succede.  Devo occuparmi di lui e basta.
          Sennò lo abortisco». Così, stringendo i denti, sedetti alla scrivania. Ripresi in mano
          la pagina del giorno prima, cercai di riportare la mente ai miei personaggi. Creature

          d’un  mondo  lontano,  di  un’epoca  in  cui  gli  aerei  e  i  grattacieli  non  esistevan
          davvero.  Ma  durò  poco.  Il  puzzo  della  morte  entrava  dalle  finestre,  dalle  strade
          deserte giungeva il suono ossessivo delle ambulanze, il televisore lasciato acceso
          per  l’angoscia  e  lo  smarrimento  lampeggiava  ripetendo  le  immagini  che  volevo
          dimenticare.  E  d’un  tratto  uscii  di  casa.  Cercai  un  taxi,  non  lo  trovai,  a  piedi  mi
          diressi verso le Torri che non c’erano più, e…
               Dopo  non  sapevo  che  fare.  In  che  modo  rendermi  utile,  servire  a  qualcosa.  E

          proprio mentre mi chiedevo che-faccio, che-faccio, la TV mi mostrò i palestinesi che
          pazzi di gioia inneggiavano alla strage. Berciavano Vittoria-Vittoria. Poi qualcuno
          mi raccontò che in Italia non pochi li imitavano sghignazzando bene-agli-americani-
          gli-sta-bene e allora, con l’impeto d’un soldato che si lancia contro il nemico, mi
          buttai  sulla  macchina  da  scrivere.  Mi  misi  a  fare  la  sola  cosa  che  potevo  fare.
          Scrivere.  Appunti  convulsi,  spesso  disordinati,  che  prendevo  per  me  stessa  cioè

          rivolgendomi a  me  stessa.  Idee,  ragionamenti,  ricordi,  invettive  che  dall’America
          volavano in Italia, dall’Italia saltavano nei Paesi mussulmani, dai Paesi mussulmani
          rimbalzavano in America. Concetti che per anni avevo imprigionato dentro il cuore e
          dentro  il  cervello  dicendomi  tanto-la-gente-è-sorda,  non-ascolta,  non-vuole-
          ascoltare. Sgorgavano come una cascata d’acqua, ora. Ruzzolavano sulla carta come
          un irrefrenabile pianto.   17



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          Quasi mi disturba parlare di La Rabbia e l’Orgoglio, il cui incredibile successo mi
          perseguita,  ormai.  La  cui  vitalità  mi  ossessiona,  mi  impedisce  di  tornare  al  mio
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