Page 149 - Oriana Fallaci - Solo io posso scrivere la mia storia
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11 Settembre














          La città è un cimitero. Tutte le strade sono deserte come nel film L’ultima spiaggia.
          Al posto dei rumori infernali di  New York, un silenzio di ghiaccio.  O meglio, di
          tomba. È tutto chiuso. I ponti, i tunnel, gli uffici. Soltanto gli ospedali sono aperti. E
          gli obitori. Credo che i cadaveri siano veramente migliaia. Diecimila, si dice, e mi
          stupirei se fossero meno di cinquemila.

               Ah,  se  fossi  Robespierre!  Meglio  ancora,  il  brav’uomo  vestito  di  rosso  che
          aveva il piacere di tagliare personalmente le teste…          16


          A volte le cose che scrivo sono proprio lacrime, e ciò che scrissi in quei giorni era
          davvero un irrefrenabile pianto. Sui vivi, sui morti. Su quelli che sembrano vivi ma
          in realtà sono morti.



          La vigilia della catastrofe pensavo a ben altro: lavoravo al romanzo che chiamo il-
          mio-bambino [Un cappello pieno di ciliege, N.d.R.]. Un romanzo molto corposo e
          molto impegnativo che non ho mai abbandonato, che al massimo ho lasciato dormire
          qualche  mese  per  curarmi  in  ospedale  o  per  condurre  negli  archivi  e  nelle
          biblioteche le ricerche su cui è costruito. Un bambino molto difficile, molto esigente,

          la  cui  gravidanza  è  durata  gran  parte  della  mia  vita  d’adulta,  il  cui  parto  è
          incominciato grazie alla malattia che mi ucciderà, e il cui primo vagito si udrà non so
          quando. Forse quando sarò morta. (Perché no? Le opere postume hanno lo squisito
          vantaggio  di  risparmiarti  le  scemenze  o  le  perfidie  di  coloro  che  senza  saper
          scrivere e neanche concepire un romanzo pretendono di giudicare anzi bistrattare chi
          lo concepisce e lo scrive.) […]
               Ero  a  casa,  la  mia  casa  è  nel  centro  di  Manhattan,  e  verso  le  9  ho  avuto  la

          sensazione  d’un  pericolo  che  forse  non  mi  avrebbe  toccato  ma  che  certo  mi
          riguardava. La sensazione che si prova alla guerra, anzi in combattimento, quando
          con  ogni  poro  della  tua  pelle  senti  la  pallottola  o  il  razzo  che  arriva,  e  tendi  le
          orecchie  e  gridi  a  chi  ti  sta  accanto:  «Down!  Get  down!  Giù!  Buttati  giù!».  L’ho
          respinta.  Non  ero  mica  in  Vietnam,  non  ero  mica  in  una  delle  tante  e  fottutissime

          guerre che sin dalla Seconda guerra mondiale hanno seviziato la mia vita! Ero a New
          York, perbacco, in un meraviglioso mattino di settembre. L’11 settembre 2001. Ma
          la sensazione ha continuato a possedermi, inspiegabile, e allora ho fatto ciò che al
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