Page 118 - Oriana Fallaci - Solo io posso scrivere la mia storia
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Pasque e i Capodanni, mentre le stagioni cambiavano ed io mi accorgevo che
cambiavano soltanto perché dalla finestra del mio studio vedevo un albero: un pero.
E quando arrivava la primavera il pero metteva le foglie. Quando arrivava l’estate,
il pero faceva le pere. Quando arrivava l’autunno, il pero perdeva le foglie. Quando
arrivava l’inverno, il pero diventava secco… Questo libro è stato la mia stagione
all’inferno, ma saison à l’enfer. […] Rimbaud c’è stato quattro mesi chiuso in quella
stanza per scrivere la sua Saison à l’enfer. Bè, era in ogni senso più bravo di me. Io
ci sono stata tre anni.
Da ultimo ero malata. Non dormivo più e quando dormivo sognavo di scrivere il
libro. Sempre la stessa pagina: una pagina che non mi riusciva perché la volevo fare
senza punti fermi, al massimo coi puntini, le virgole, un periodo dentro il periodo
con tutti i congiuntivi e condizionali, e c’era una consecutio temporum che non
veniva: la sbagliavo. A un certo punto, impazzita, chiamai un amico dottore. E gli
chiesi di darmi qualcosa per non farmi sognare sempre quella pagina, quella
consecutio temporum. E il dottore che era un amico mi disse: «Sei impazzita
davvero, dov’è la medicina che non ti fa sognare la consecutio temporum? Sei
stanca, devi interrompere la lavorazione di questo libro». Ma io non la interruppi, e
presi a inghiottire pillole per dormire e pillole per svegliarmi, per finire quel libro e
tornare alla vita e dimenticare la mia stagione all’inferno. Rivedere il cielo, il sole,
e muoversi nelle stagioni che cambiano: senza quel pero. […]
Vi sono pagine in questo libro, pagine che io non posso rileggere. E che non ho
mai riletto. Per esempio le pagine in cui la donna (cioè io) entra all’obitorio per
vedere il suo uomo morto che hanno chiuso dentro una cella frigorifera. […]
Quando entrai in quell’obitorio, non piansi. E quando aprirono la cella
frigorifera e vidi il suo corpo straziato, non piansi. E quando lo toccai, così freddo,
non piansi. Infatti, quando uscii dall’obitorio, la folla diceva, quasi in tono d’accusa:
«Guarda, non piange!».
Ma quando scrissi tutto questo piansi. Piangevo lacrime così lunghe, così gonfie,
così pese, che non vedevo nemmeno le parole che andavo scrivendo. E per questo
non sono mai riuscita a rileggerle. Neanche per corregger le bozze. Le ha corrette
qualcun altro quelle pagine. Io non so nemmeno se sono pagine scritte bene o scritte
male. Il mio editore disse che erano scritte bene, tra le più belle. Io non lo so. Non
voglio saperlo. 45