Page 361 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
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Una ferita che non si vede




             Da  questa  guerra  torno  con  una  ferita  che  non  si  vede.  Perché  non  è
          una  ferita  esterna,  una  ferita  che  sanguina  e  lascia  una  cicatrice  sulla

          pelle.  È  una  ferita  nascosta  dentro  i  miei  polmoni,  una  ferita  che  si
          rivelerà  chissà  quando.  Tra  sei  mesi,  tra  un  anno,  tra  due?  Me  la  sono
          procurata a ottanta chilometri da Kafji, insieme a tre Marines della First
          Division e a chissà quante altre persone che in quel momento si trovavano

          nella  zona,  e  a  in iggermela  è  stata  un’arma  nuova.  Un’arma  che  non
          avevo mai trovato nelle guerre di cui sono stata testimone e cronista nel
          corso della mia vita. La Nuvola Nera.
             Cioè  l’immensa  massa  di  fuliggine  che  da  metà  febbraio  si  leva  dalle

          fiamme dei pozzi incendiati. Tornavamo da Kuwait City, io e i tre Marines
          della First Division. E poiché il vento so ava come sempre a nord-ovest,
          vale  a  dire  verso  l’Iran,  l’aria  non  era  proprio  irrespirabile.  Puzzava  il
          solito puzzo di benzina e basta. Ottanta chilometri dopo Kafji, però, ha

          fatto  mulinello.  S’è  messo  a  so are  in  direzione  sud-est,  ha  portato  la
          Nuvola Nera da noi, e il nostro camion c’è entrato dentro: s’è tu ato in un
          buio così buio che l’autista non vedeva più dove andava e pur accendendo
          i fari ha dovuto continuare a passo d’uomo. Siamo rimasti in quel buio per

          circa mezz’ora, accecati, as ssiati da un puzzo sempre più nauseabondo
          (puzzo  d’uova  marce,  m’è  parso),  e  quando  abbiamo  rivisto  la  luce
          facevamo  pietà.  I  nostri  occhi  lacrimavano,  la  nostra  gola  bruciava,  il
          nostro  petto  doleva,  il  nostro  stomaco  voleva  vomitare  il  panino

          mangiato  alla  partenza,  e  non  riuscivamo  quasi  a  star  zitti.  Eravamo
          anche  molto  sporchi,  sembravamo  tre  maschere  di  pece,  e  per no  la
          nostra lingua appariva nera.
             Infatti l’autista ha esclamato: «By God! If outside we’re like that, what

          do we have inside the lungs? Perdio! Se fuori siamo ridotti a questo modo,
          dentro  i  polmoni  che  abbiamo?».  Diagnosticando  un  caso  di
          intossicazione, l’u ciale medico della base che la First Division tiene ad
          Al Jubail s’è preso i tre Marines e se l’è portati all’infermeria. Io invece ho

          proseguito per Dahran dove tra l’altro ho avuto un violentissimo attacco
          d’asma, e da allora mi sento male. Gli occhi continuano a lacrimare, la
          gola continua a bruciare, il petto continua a dolere come quando si ha la
          bronchite, e respiro sempre a fatica. Ecco perché.

             Sono almeno seicentotrentacinque i pozzi che ardono nel Kuwait (alcuni
          sostengono novecento o mille ma contarli con precisione è impossibile per
          via  del  calore  terri cante  che  impedisce  di  avvicinarsi)  e  ogni  giorno
          vanno in fumo almeno tre milioni di barili di greggio. E col fumo entrano
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