Page 114 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
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Quando combattevamo la nostra guerra in Europa, venivamo forse a
piazzare le bombe nei vostri treni, a nascondere gli ordigni nei vostri
sacchi postali, a incendiare i vostri bazar, a sparare sui vostri bambini e
in ne a esigere la vostra comprensione, la vostra complicità? Non ci siete
che voi a commettere simili abusi nei paesi neutrali: i vietcong, ad
esempio, non se li son mai sognati. E il discorso potrebbe andare più in là
perché, diciamolo una volta per sempre, non ci vuole punto coraggio a
sistemare un congegno a orologeria dentro una valigia e far precipitare
un aereo. Non ci vuole punto coraggio a incendiare un ospizio di poveri
vecchi, a tagliar le riserve di ossigeno in un ospedale pieno di ammalati.
Non ci vuole punto coraggio a riempir di esplosivo due bussolotti di
marmellata e lasciarli in un supermarket. In qualsiasi parte del mondo ciò
avvenga: compreso Israele. Il coraggio ci vuole ad attaccare una caserma,
una colonna motorizzata, una mitraglia puntata. Il coraggio ci vuole a
superare un campo minato, a sostenere una battaglia contro i carri armati
e i Mirage: come fanno i vostri dayn, i veri soldati. Ma uccidere gli
inermi con l’insidia e l’inganno, prender di mira coloro che non si posson
difendere, è roba da fidayn? Da soldati?
L’uomo sapeva che ero andata da lui per chiedergli queste cose,
muovergli queste accuse. Ed ora mi guardava con occhi fermi e dolorosi,
l’aria di dire: «Son pronto, spara». Sotto gli occhi le guance pendevano
stanche, ispide di barba non rasata da chissà quanti giorni e grigia come i
ba e i capelli. I capelli erano tagliati a spazzola e alle tempie
sfumavano addirittura nel bianco. Di corpo era robusto, solido, con ampie
spalle da lottatore. Di aspetto era trasandato: pantalonacci privi di piega,
maglione arrotolato al collo, giubbotto di tela blu. Non sembrava un
arabo, lo avresti detto piuttosto un italiano del Nord: un operaio
metallurgico o un manovale. Da ogni suo gesto emanava una grande
tristezza e una gran dignità, sicché a esaminarlo eri colta da una simpatia
irresistibile. Io non volevo provarla. E la respingevo. Ma essa tornava a
ondate senza che ci potessi far nulla: solo registrare una specie di rabbia,
e un profondo stupore. Pare che succeda a chiunque incontri il dottor
George Habash, fondatore e leader del Fronte Popolare per la liberazione
della Palestina: il movimento che esercita la lotta col terrorismo. Dico
«dottor» Habash perché prima di ammazzare la gente egli la salvava: era
medico.
E che medico. Non uno di quelli che trattano i malati col criterio di un
contabile: uno di quelli che ci credono e piangono se il malato se ne va.
Possedeva una clinica dove lavorava insieme a un gruppo di suore, le
Sorelle di Nazareth. La clinica era ad Amman e in massima parte ospitava
bambini, perché s’era specializzato in pediatria. Oltre ai bambini,