Page 171 - Oriana Fallaci - I sette peccati di Hollywood
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chiese  notizie  dei  miei  familiari  come  se  li  conoscesse
                benissimo  e  fosse  ansioso  di  rivederli.  Con  rimpianto  si

                congratulò per la mia «insolente giovinezza». Poi pregò Rose e
                Ann di accomodarsi sul divano di fronte e consegnò a ciascuna

                di loro un pacco di fogli e una matita. Il compito di Ann e di
                Rose era quello di scrivere quanto avrei chiesto e quel che il re
                avrebbe risposto: per evitare in seguito contestazioni e querele.

                Non ebbero molto da scrivere.
                  Prima che aprissi bocca, De Mille si chinò insinuante verso di

                me  e,  scrutandomi  con  gli  occhietti  indulgenti,  mi  disse:  «La
                prima domanda la faccio io. Mi parli del mio ultimo film».
                  Ci fu un lungo, insopportabile, imbarazzante silenzio. De Mille

                aspettava,  col  suo  dolce  sorriso  sulle  labbra  abbronzate.  Ann
                aspettava. Rose aspettava. E io tacevo.

                  «Mi dica, mi dica» ripeteva De Mille avvicinandosi sempre di
                più, come se parlassi a voce bassissima e lui fosse corto d'udito.

                    «Coraggio,  bambina.»  No,  al  re  non  si  poteva  mentire.  E
                penosamente inghiottii la mia disperazione. Supplichevolmente

                lo guardai. «Io non ho visto il suo film, signore.» Se gli avessi
                detto che il film era orrendo, la reazione non sarebbe stata più
                forte. Di colpo il sorriso del re divenne una smorfia e il re balzò

                in  piedi  con  una  vigoria  da  adolescente,  tuonando:  «Non  ha
                ancora visto il mio film? Sta a Hollywood e non ha ancora visto

                il mio film?».
                    Sembrava  davvero  sconvolto.  Balbettai  qualche  spiegazione

                meschina:  che  ero  arrivata  la  notte  precedente,  anzi  ero  scesa
                dall'aereo da pochissime ore. Ma ogni scusa sembrava inutile.

                Rose mi guardava con indignazione, Ann con doloroso stupore.
                Inchiodata alla mia responsabilità, subivo il martirio e allora il
                re, che è clemente come tutti i monarchi, ebbe pietà.

                  «Cara,» disse accarezzandomi con la mano liscia una guancia
                «vada a vedere il mio film e poi riprenderemo il discorso.» Alzò

                il ricevitore del telefono e: «Un biglietto per il Beverly Wilshire
                Theatre  con  prenotazione  a  mio  nome  per  stasera  alle  otto.

                Intesi? E sia puntuale. Intesi? E domani alle due ritorna da me?



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