Page 168 - Oriana Fallaci - I sette peccati di Hollywood
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Capitolo primo


                  Tutti, a Hollywood, mi domandavano se fossi stata a parlare
                col  re  perché  gli  uomini  che  fanno  la  storia  di  Hollywood,

                dicevano,  non  sono  i  divi  o  i  tipi  come  Elvis  Presley,  ma  gli
                uomini che assomigliano al re. Stupiti che il colloquio non fosse
                ancora avvenuto, mi domandavano quante volte avessi visto I

                    Dieci  Comandamenti,  lo  spettacolo  per  cui  da  due  anni
                l'America intera impazzisce. Indignati che non sapessi nulla del

                film, mi voltavano bruscamente le spalle. Allora, una mattina,
                chiesi di parlare col re.

                    Il  re  fu  contento  e  rispose  attraverso  un  funzionario  che  mi
                avrebbe ricevuto, l'indomani alle due e mezzo, nel suo quartier

                generale. Il funzionario era un giovanotto pallido ed eccitato: mi
                portò la notizia aggiungendo, «per il mio bene», molti consigli.
                Anzitutto mi raccomandò di arrivare con mezz'ora di anticipo: il

                re  non  poteva  aspettare.  Poi  mi  ordinò  di  abbigliarmi
                severamente, come si conviene a un incontro solenne. Infine mi

                disse di non preparare domande impudenti. Fu così che, vestita
                di  nero,  priva  di  trucco,  e  vagamente  impaurita,  mi  recai  al

                quartier generale del re che si trova al numero 5451 di Marathon
                Street, dentro le mura della Paramount.

                    La  strada  per  arrivare  al  re  è  lunga  e  difficile.  Il  primo
                problema consiste nel superare l'entrata principale degli studios
                dove le pareti sono ancora coperte dai fotogrammi de I Dieci

                Comandamenti,  e  un  poliziotto  accigliato  come  quelli  che
                interrogano  gli  stranieri  sospetti  a  Ellis  Island  rivolge  una

                quantità  di  domande  indiscrete.  Il  mio  poliziotto  era
                particolarmente cattivo.

                  Volle sapere come mi chiamavo, quanti anni avevo, da dove
                venivo, che cosa volevo. Mi fece aspettare moltissimo, telefonò

                a tre o quattro persone per controllare se ero davvero attesa dal
                re  e,  soltanto  dopo  avermi  fatto  sentire  colpevole  di  reati
                nient'affatto commessi, mi permise di salire fino all'ufficio del

                signor Schellhorn, uno coi baffi che si occupa di pubblicità.



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