Page 215 - Oriana Fallaci - 1968
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incominciò la paura: è da giovedì 4 aprile che l’America bianca
                affonda nella paura. Non si parla più neanche del Vietnam, delle

                elezioni. Non importa più a nessuno che la piace nel Vietnam si
                faccia  o  no,  che  le  elezioni  le  vinca  Gene  McCarthy  o  Bob

                Kennedy, Nixon o Rockefeller. E te ne accorgi a Washington
                meglio  che  in  qualsiasi  altro  posto.  C’è  il  coprifuoco  a
                Washington: incomincia alle quattro del pomeriggio. E finisce

                solo alle sei e mezzo del mattino.
                    Giunsi a Washington verso le sette di sera, sabato 6 aprile.

                L’aeroporto  era  in  subbuglio  perché  si  diceva  che  un  aereo,
                atterrando, era stato colpito dalla fucilata di un cecchino negro.

                Neanche fossimo stati a Saigon, a Da Nang, a Hué. Entrare in
                città  col  coprifuoco  era  una  specie  di  impresa,  i  passeggeri

                venivano intruppati e spediti ai vicini motel, l’unico taxi in un
                raggio  di  chilometri  era  quello  di  un  negro  che  non  voleva
                bianchi. Gli corsi incontro come si corre verso un bunker per

                sfuggire ai mortai, gli spiegai che ero straniera: mi accettò per
                questo.  Sul  parabrezza  aveva  scritto  con  la  vernice  bianca:

                «Soul  Brother».  Tradotto  alla  lettera  «Soul  Brother»  significa
                fratello  nell’anima;  tradotto  più  esattamente  significa  «sono

                dalla tua parte, negro, non farmi del male». Mi spiegò che senza
                una simile scritta, il taxi rischiava d’essere aggredito e bruciato.

                I  tassisti  bianchi,  i  negri  zio  Tom,  non  scrivono  certo  «Soul
                Brother». Parlando, una volta che fummo in città, mi mostrava
                col dito le auto parcheggiate lungo i marciapiedi: una su dieci

                aveva  la  scritta  «Soul  Brother»  o  «Soul  Sister».  Ce  n’erano
                anche sui vetri di molti negozi, lungo le strade deserte e sbarrate

                a  ogni  incrocio  da  soldati  armati  come  in  Vietnam.  «Quanti
                soldati ci sono stasera?» gli chiesi. «Diecimila, sister. Ma altri
                tremilacinquecento  son  pronti  ad  entrare  in  azione.»  C’era

                anche  una  mitragliatrice,  mi  disse,  vicino  al  monumento  di
                Lincoln e carri armati stavano non lontano dalla Casa Bianca.

                «Se li immagina, lei, i carri armati intorno alla Casa Bianca?»
                    Mi lasciò allo Statler Hilton: inutile cercare un facchino che

                mi  prendesse  il  bagaglio.  A  Washington  la  gran  maggioranza
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