Page 213 - Oriana Fallaci - 1968
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sicura  alle  portiere».  Per  tranquillizzarlo  obbedii  e  stavo
                scherzando sulla sua paura quando una dozzina di ragazzi negri

                ci circondò gridando. Dai vetri chiusi non potevo udire ciò che
                dicevano,  però  divenne  evidente  allorché  incominciarono  a

                battere i pugni sui vetri, dopo i pugni un paio di sassi, coi sassi
                ne  ruppero  uno,  e  attraverso  il  buco  si  allungarono  due  tre
                quattro mani, non certo per farci carezze.

                    Ci  salvò  un  giovanotto  negro  che  avanzava  portando  una
                borsa  piena  di  Coca-Cola.  Intuì,  suppongo,  che  dentro  il  taxi

                c’era qualche bianco: svelto come un gatto alzò la borsa delle
                bottiglie a mo’ di clava e incominciò a rotearla sulle loro teste.

                Quando n’ebbe storditi tre o quattro così, balzò sugli altri. E, ad
                uno ad uno, li strappò dal mio taxi gettandoli in terra. Sembrava

                il cowboy valoroso di un western, ma nessuno dei negri intorno
                a  lui  fece  il  gesto  di  corrergli  in  aiuto:  restarono  tutti  lì,
                immobili,  senza  battere  ciglio.  Poi  la  fila  delle  automobili

                riprese ad andare. L’autista mise in moto tremando, e dal vetro
                posteriore  mi  accorsi  che  alcuni  ragazzi  s’eran  rialzati,  a  loro

                volta  avevano  gettato  il  giovanotto  per  terra  e  lo  stavano
                pestando con la ferocia di chi viene a scoprire una nuova preda

                quando  l’altra  è  fuggita.  Pestando  gridavano:  «Uncle  Tom!
                Uncle Tom!» e di nuovo nessuno dei negri intorno fece il gesto

                di andargli in aiuto. Quando a un incrocio scorsi un poliziotto,
                negro naturalmente, e gli spiegai quel che accadeva, lo pregai di
                fare qualcosa, mi guardò con volto di pietra e non mi rispose

                neanche.
                    Giunta dinanzi alla chiesa ebbi i miei problemi per entrarci

                dentro, superare la barriera umana che ostruiva il passaggio fino
                ai reverendi Jackson, Young, Abernathy. Non solo la folla non
                mi  lasciava  passare:  mi  opponeva,  come  il  poliziotto,  un

                cocciuto  sdegnoso  silenzio.  Qualche  progresso  avvenne  solo
                quando  cominciai  a  chiedere  scusa  in  francese  e  a  pregarli,

                nell’inglese  peggiore  che  potessi  inventare,  di  scostarsi  un
                pochino.  Non  che  il  francese  e  il  mio  accento  di  straniera  gli

                piacessero molto, ma era sempre meglio per loro che credermi
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