Page 19 - Francesco tra i lupi
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città messicana di León e si ferisce alla testa. La ferita è superficiale, però perde abbondantemente sangue.
    Tutto viene tenuto segreto, lo zucchetto papale nasconde i postumi, ma il medico personale Patrizio Polisca si
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    oppone ad altri viaggi transoceanici del papa . In effetti per Benedetto XVI il successivo viaggio nel Libano
    sarà l’ultimo.
      Tornato in Vaticano, Ratzinger decide irrevocabilmente di lasciare il trono papale. È una decisione epocale,
    destinata a incidere anche sul pontificato di Bergoglio e dei suoi successori. Non c’è mai stato nella storia della
    Chiesa  cattolica  un  papa  dimessosi  volontariamente  e  liberamente.  I  ritiri  sono  sempre  stati  causati  da
    pressioni esterne. Per volontà degli antichi imperatori romani o per effetto di scontri politici e religiosi come
    quando al concilio di Costanza, sul finire del medioevo, ben tre papi e antipapi vennero costretti a farsi da
    parte. Neanche Celestino V, il più famoso di tutti a causa dell’invettiva di Dante, ha scelto in serenità. Dopo
    nemmeno quattro mesi di pontificato (dal 29 agosto al 13 dicembre 1294) fu travolto da intrighi politici ed
    ecclesiali e all’indomani dell’abdicazione fu imprigionato fino alla morte dall’ambizioso successore Bonifacio
    VIII.
      Le dimissioni di Ratzinger sono completamente diverse. Non sono forzate. Non sono emotive e neanche
    l’effetto di un’eccessiva fragilità fisica. Sono il risultato di un ragionamento preciso. Benedetto XVI vuole fare
    tabula rasa delle posizioni cristallizzate in curia. Il suo ritiro costringe, a norma del diritto canonico, i massimi
    dirigenti del governo centrale della Chiesa a diventare dimissionari anch’essi. Nei fatti la decisione di abdicare
    equivale ad una sorta di colpo di stato, che in Vaticano azzera tutto.
      Ratzinger sa che da oltre mezzo secolo l’ipotesi di un’abdicazione papale aleggia in Vaticano. Ci pensò Pio
    XII,  temendo  che  i  nazisti  potessero  catturarlo,  e  poi  Paolo  VI.  La  questione  fu  nuovamente  valutata  da
    Giovanni  Paolo  II,  che  istituì  una  commissione  di  studio  segreta  per  sviscerarne  tutti  gli  aspetti.  Alla  fine
    anche Wojtyla scelse di non abdicare. Sia per immedesimarsi con le sue sofferenze con la passione di Cristo
    sia  perché  –  ricorda  il  suo  ex  segretario  cardinale  Stanislao  Dziwisz  –  sarebbe  stato  un  «pericoloso
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    precedente» .
      Ratzinger cancella queste perplessità. L’esplodere nel 2012 del grande scandalo Vatileaks lo conferma, anzi,
    nel suo intento. La fuga di documenti mette in luce la disgregazione e la paralisi cui è giunta la macchina
    vaticana.  Sui  media  internazionali  finiscono  le  lettere  del  segretario  generale  del  governatorato  vaticano,
    mons. Carlo Maria Viganò, al segretario di Stato cardinale Bertone. Vi si legge la denuncia di corruzione
    negli appalti dello Stato pontificio per centinaia di milioni di euro. Per risposta Bertone silura Viganò e lo
    manda a Washington come nunzio. Il segretario di Stato, a sua volta, si scontra con il cardinale di Milano
    Dionigi  Tettamanzi  per  il  controllo  dell’Università  Cattolica  e  il  policlinico  Gemelli.  Il  cardinale  Attilio
    Nicora, presidente dell’Autorità di informazione finanziaria che dovrebbe ispezionare i movimenti di denaro
    all’interno del Vaticano, si scontra con Bertone perché la politica di trasparenza viene ostacolata. Il presidente
    della banca vaticana Ior, Ettore Gotti Tedeschi, amico del papa, viene prima incoraggiato a fare pulizia, poi
    spiato, bloccato nel progetto di sottoporre i bilanci della banca al vaglio dell’agenzia internazionale Deloitte e
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    infine cacciato ignominiosamente dalla carica .
      Nel governo centrale della Chiesa viene allo scoperto un «intreccio di corvi e vipere», si sfogherà più tardi il
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    cardinale Bertone . Inutile è il tentativo di ridurre lo scandalo ad un problema di furto di documenti ad opera
    del maggiordomo papale Paolo Gabriele, condannato e poi graziato. In Vaticano nessuno crede che lui sia
    l’unica mente ad aver causato la catastrofe.
      Benedetto XVI, per la prima volta nel suo pontificato, si muove secondo una strategia pianificata. Istituisce
    una speciale commissione di inchiesta di tre cardinali ultraottantenni – Julián Herranz, Salvatore De Giorgi,
    Jozef Tomko – che passerà al setaccio gli uffici vaticani e consegnerà al pontefice una relazione blindata di
    trecento pagine. Dentro c’è tutto: le manovre di carrierismo e potere in Vaticano, i comportamenti affaristici,
    le irregolarità sessuali di un certo numero di prelati. Benedetto XVI, che aveva iniziato il suo pontificato
    denunciando la «sporcizia» nella Chiesa, prova disgusto.
      Nel frattempo ha cominciato a condividere il suo progetto con una cerchia ristrettissima di persone. Ne
    fanno parte il fratello Georg e il segretario particolare mons. Gänswein, che reagisce costernato: «No, Santo
    Padre, non è possibile». Ma non c’è niente da discutere. «Fu come una coltellata per me», ricorda Gänswein.
    Nessuno sospetta di nulla. Solo un vescovo veterano del concilio Vaticano II, mons. Luigi Bettazzi, di fronte
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