Page 8 - Manuale di autostima
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l’avrebbe guardata con maggiore sorpresa. E neanche con maggiore turbamento. Mentre  si
      dirigeva con passo pesante verso il segretissimo ufficio del direttore Monti, da cui in pochi
      erano tornati senza ricevere pesanti affondi al proprio equilibrio psico-fisico, il povero
      ingegnere non si stava domandando quale fosse il motivo del direttore per convocarlo, ma
      piuttosto  cosa  diavolo  avesse  combinato  per  meritarsi  una  simile  sciagura,  e  a  come

      poteva uscirne vivo. Gli ordini… le fatture… in teoria, era tutto a posto. Non c’erano state
      discussioni con i colleghi, non l’avevano più beccato a mangiare biscotti mentre parlava al
      telefono con la filiale estera e non aveva più otturato involontariamente i lavandini del bagno.
      Mentre  percorreva  il  corridoio,  che  gli  sembrava  lungo  almeno  dieci  chilometri,  riuscì  a
      inciampare nel tappeto due volte, scontrarsi contro una porta a vetro che non aveva visto e a

      pestare il piede all’assistente del direttore, che gli camminava a fianco reggendo una tazza di
      caffè, oltre a procurarsi danni irreparabili alle valvole aortiche.
      Aprì la porta del direttore con la sensazione di stare danzato coperto solo da un tutù rosa
      verso il baratro di un destino atroce, armato di nulla.
      «Forti,  prego,  prego,  entri»  disse  il  direttore,  con  un  sorriso  tirato  che  gli  arrivava  da  un
      orecchio all’altro.

      L’ingegnere si fece coraggio, si diresse fino alla scrivania del direttore, e si sedette proprio di
      fronte al suo nemico.
      «Forti, mi dica, lei si trova bene qui da noi? La prego, sia sincero».
      L’ingegner Forti annuì.
      «Ritiene che la trattiamo bene? Ritiene che teniamo in considerazione il suo lavoro, le sue
      capacità?».

      «Sì… sì» l’ingegnere si schiarì la voce, almeno per darsi un tono. «Sono molto contento di
      lavorare con voi».
      «Perché,  vede,  Forti»,  pausa  ad  effetto,  tanto  per  avvicinare  il  poveretto  ancora  di  più
      all’infarto. «A me piace pensare alla mia azienda come ad una famiglia. E una famiglia…»,
      altra pausa ad effetto. «Funziona solo se tutti fanno la loro parte. Cosa succederebbe se in casa
      nessuno facesse da mangiare, o se nessuno caricasse la lavastoviglie? Sarebbe il caos, glielo

      dico io. E lei, nella nostra famiglia, sta facendo la sua parte?».
      «Io… io spero davvero…».
      «No, Forti, io non le sto chiedendo quello che spera». Il tono calmo del direttore riusciva a
      dare a tutto il discorso un alone ancora più inquietante. «Io le sto chiedendo quello che fa».
      Sempre più confuso, il poveretto si limitò a scrollare le spalle.
      «Io… io tento di fare del mio meglio».

      «Nessuno dubita di questo. Non parlo delle sue intenzioni. Lei può avere ottime intenzioni, e
      una  grande  buona  volontà.  Ma  non  è  detto  che  a  questo  si  accompagnino  per  forza  buoni
      risultati, se non c’è talento. Se non c’è capacità. Quindi io non parlo di fare del suo meglio.
      Parlo di risultati. Lei crede di essere degno di rimanere con noi?».
      «Beh, io… degno…»
      «Sì, sì. Degno. Crede di essere un lavoratore capace? Di essere degno di continuare la sua

      strada nella nostra azienda?»
      «Ecco… io non so proprio… se lei mi dicesse…». Il povero ingegner Forti, ormai, avrebbe
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