Page 112 - Prodotto interno mafia
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– Vede dottore, dove sono nato io, alla Guadagna o a Brancaccio, lo Stato non c’è, non si vede ogni giorno, non offre alcuna alternativa, non
garantisce a quei ragazzi che vi applaudono nelle vostre conferenze né un lavoro né un ruolo. Quando quei ragazzi diventano adulti vi tradiscono, non
avendovi mai giurato fedeltà, e scelgono noi, perché noi garantiamo ruolo sociale e un lavoro e tutto quanto si può desiderare. Con noi loro diventano
qualcuno.
A parlare, guardando negli occhi un procuratore antimafia di Palermo, è il boss Pietro Aglieri, detto «U signorino» per i modi da gentiluomo e
l’eterno doppiopetto, catturato nel giugno del 1997 dopo otto anni di latitanza e un numero infinito di omicidi e malversazioni.
Il nome di Aglieri, in carcere a vita per le stragi del ’92-’93, crea disagio negli ambienti ecclesiali. La sua storia e quella di frate Frittitta, il
monaco carmelitano che ogni domenica celebrava messa privata nel nascondiglio del boss in doppiopetto, rivelò una connivenza tra ambienti religiosi
siciliani e malavita organizzata.
Domenico Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo, provincia di Trapani, però, non si imbarazza facilmente. Non è, certo, il prete di frontiera
dei quartieri a rischio, né fa del pauperismo e dell’«anarchia cristiana» un modello di vita religiosa. Monsignor Mogavero è uomo di istituzioni,
convinto del valore eterno della Chiesa. Riforma o pulizia vanno fatte, ma dall’interno.
Ci incontriamo un mercoledí di luglio a Mazara del Vallo. Ad aspettarmi all’aeroporto di Palermo c’è Ignazio, un ex commerciante di Mazara
che ha ceduto la sua attività pur di lavorare accanto al vescovo. La strada che collega l’aeroporto alla città racconta troppe storie di mafia. Ignazio
prova a farsi narratore e con lo sguardo rivolto verso l’esterno mi indica una fabbrica bruciata da Cosa nostra, un terreno confiscato, costruzioni
abusive, il punto dove è saltata in aria la macchina che trasportava il giudice Falcone, sua moglie e gli uomini della scorta. L’elenco doloroso di
benvenuto si conclude con un «però»: – La prossima volta che torna le mostreremo tutte le cose belle della nostra terra, – dice con orgoglio misto a
rassegnazione.
Quando arriviamo al Vescovato, la piazza è vuota. È facile farsi suggestionare dal silenzio e dall’afa. Mogavero mi aspetta nello studio, una
grande stanza piena di mobili antichi, un divano stile liberty, poltrone di velluto, ritratti a olio appesi alle pareti. L’unico elemento di modernità è il pc
che fa capolino dalla scrivania in legno. – Senza Skype non riuscirei a lavorare, – dice.
La fede nella Chiesa, l’attenzione a chi è diverso e la passione per le nuove tecnologie, si uniscono ad abitudini d’altri tempi, come capita in
Sicilia. Pranziamo insieme a sua madre, al chierichetto piú promettente della diocesi e al signor Ignazio. In cucina moderne perpetue preparano
pietanze tradizionali. La preghiera prima di iniziare, il silenzio a tavola e il riposo pomeridiano dei commensali previsto per il dopo pranzo dànno alla
scena un’atmosfera anni Cinquanta.
Domenico Mogavero nasce a Castelbuono, provincia di Palermo, nel 1947. Nominato sacerdote nel 1970, passa buona parte della sua vita
lontano dall’altare tra i tribunali ecclesiastici e gli uffici della Conferenza episcopale italiana. Il 2007 è per lui l’anno della svolta: nominato presidente
del Consiglio per gli Affari giuridici, viene spedito dal cardinale Camillo Ruini a fare il vescovo in una città ricca di pescatori e mafia, Mazara Del
Vallo.
Il suo nome, oggi, è associato al documento della Cei Chiesa Italiana e Mezzogiorno, dura condanna alla mafia e ai mafiosi. Il 10 marzo del
2010, pochi giorni dopo la pubblicazione ufficiale del testo, Mogavero rilascia insieme ad Antonio Riboldi, vescovo di Acerra, provincia di Napoli, e
don Francesco Montenegro, vescovo di Agrigento, un’intervista al settimanale «Famiglia Cristiana» in cui si invoca lo «sciopero elettorale» contro
l’inadeguatezza della classe politica italiana nella lotta alla mafia e si propone l’abolizione delle feste religiose nei paesi controllati da Cosa nostra.
Nell’intervista il vescovo di Mazara: – Ogni comunità scelga un argomento in relazione alla situazione del proprio territorio e agisca: pizzo,
usura, corruzione della politica, mafia devota che offre soldi per le feste popolari –. E ad ammonire: – Se dopo Pasqua nessuno parlerà piú del
documento allora avremo fallito –. Da quel giorno il nome di Mogavero è costantemente impegnato nelle battaglie per la legalità e la difesa degli
immigrati al punto da chiedere un incontro a Gheddafi, durante la visita ufficiale in Italia del 2009, per discutere della condizione dei migranti a
Tripoli. Il leader libico, però, rifiuta l’incontro.
Insieme al Milan, passione insolita per un vescovo, il Mediterraneo è il suo grande amore. Proprio nel grande mare che unisce Trapani, Tripoli,
la Terra Santa, Tunisi, Mogavero vede la grande speranza per il futuro di Mazara e dell’Italia intera, una nuova forma di coesistenza. Quello stesso
mare che, negli ultimi decenni, è diventato teatro di una emigrazione selvaggia ed epocale che provoca ogni anno decine di morti. Anche per questo,
Mogavero ha sentito il dovere di esporsi in prima persona in difesa degli immigrati, organizzandone l’accoglienza.
Ma chi cercasse in lui lo stereotipo del rivoluzionario, del vescovo militante che sfida la mafia e pungola la Conferenza episcopale, resterebbe
deluso. Il vescovo di Mazara è un pastore fedele della Chiesa cattolica apostolica romana. Per questo riesce a spiegare anche figure simbolo di un
clero colluso, inconsapevolmente connivente o miope davanti al potere mafioso come frate Frittitta o il cardinale di Palermo Ernesto Ruffini, che
negli anni Sessanta affermò che la mafia era «un’invenzione». La sua cautela, unita a una visione non radicale della missione pastorale, sono memoria
degli anni trascorsi tra uffici del Vaticano e aule dell’Università dove ha maturato l’idea che il cammino della storia è piú forte delle invettive
momentanee.
Anche adesso, resta persuaso che il nuovo fronte italiano di lotta alla mafia sia un paziente lavoro contro la criminalità organizzata, fatto di
pratiche e scelte quotidiane. Un’opera silenziosa di educazione e supporto a quei ragazzi, evocati dal boss Aglieri, che vivono senza l’immagine dello
Stato nel regno della mafia.
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