Page 9 - Mani in alto
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Bologna, mercoledì 12 aprile 1950



                                        Carcere di San Giovanni in Monte
















           Per giungere al portone d’ingresso del carcere di San Giovanni in Monte, basta
          percorrere poche decine di metri di una piazzetta acciottolata. La prigione è in pieno
          centro e Daniele Farris la conosce fin troppo bene: ci ha passato tre lunghi anni e ne
          è uscito solo da pochi mesi. Le stagioni là dentro sembrano tutte uguali, nemmeno ci
          si accorge del profumo e del loro mutare.

           A Daniele piace arrivarci da ponente e percorrere via De’ Chiari, una stradina che
          costeggia il complesso di San Giovanni in Monte, da dove Maria veniva spesso a
          salutarlo.
           Daniele, durante l’ora d’aria, si sporgeva da una finestra del corridoio e poteva

          vedere la sua fidanzata in fondo alla strada: una ragazza mora, alta e formosa, bella
          come un’attrice del cinematografo.
           Daniele ora si gode l’odore di questa primavera birichina, mentre il rumore dei suoi
          passi rimbalza sul portale della chiesa. Un timido ma testardo muschio fa capolino

          tra i ciottoli di selce della piazzetta.
           Daniele è un bel ragazzo, capelli neri curati, occhi piccoli e un neo sulla guancia
          sinistra. Adesso ha ventitré anni, in galera ci era finito per piccole mascalzonate e
          alcuni balordi furti nelle botteghe. E dire che la madre l’aveva messo in guardia tante

          volte ma i figli, si sa, vogliono far di testa loro e frequentare chi gli pare.
           Il padre, invece, non gli aveva insegnato niente: era un immigrato sardo che dopo
          aver messo incinta la madre era sparito nel nulla.
           «È il figlio del sardagnolo…» mormoravano i vicini di casa nemmeno troppo

          velatamente. Così il bambino era cresciuto con quel marchio stampato sulla fronte.
           E quel ragazzino sardagnolo durante la guerra arrivò ad arruolarsi nella Brigata
          nera mobile, la famigerata brigata Attilio Pappalardo del feroce comandante Franz
          Pagliani.

           Belli come la vita! Neri come la morte! Era lo slogan ufficiale che Pagliani faceva
          gridare ai suoi ragazzi per infondere coraggio durante gli assalti mortali.
           Finita la guerra, Farris era rimasto a lungo disoccupato, poi aveva trovato alcuni
          lavoretti occasionali; si era cimentato anche come strillone di giornali.

           Poi aveva incontrato il Bello.
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