Page 9 - Shakespeare - Vol. 3
P. 9
omologabile a prototipi di eroe malinconico, folle o babbeo) è accompagnato
da un amico fedele e schietto (Pilade, Orazio) e legato (con un legame
apparente di philia, di parentela e di clan, non di amore sessuale o d’incesto)
con due figure femminili. La prima è il tipo della supplice (Elettra, Ofelia, ma
quest’ultima predestinata al suicidio), la seconda è la figura femminile
centrale che contribuisce a scatenare la tragedia, il tipo di Eva o Elena di
Troia: Clitennestra e Gertrude sono associate all’usurpatore e ambigue nelle
loro motivazioni. Il coro classico si diluisce qui nella folla dei personaggi
secondari o nei momenti corali dei protagonisti: fanno da coro Orazio come il
re, Ofelia e gli attori e la regina che narra la morte di Ofelia, e Amleto stesso
nei suoi soliloqui, e Polonio che come un coro di vecchi eschilei esprime i
luoghi comuni del buonsenso o della saggezza, che possono essere nello
stesso tempo giusti e sbagliati.
Amleto appare diviso tra la fede appassionata nei valori aristocratici e la
consapevolezza della loro dissoluzione, tra l’amoroso attaccamento alla
famiglia feudale e il senso del suo sfacelo. Ci sono altre contraddizioni
inconsce in lui, tra l’ideale della moderazione e della imperturbabilità stoica e
i lamenti e le violenze sfrenate di cui sono vittime Polonio e Ofelia, tra il suo
moralismo e la passione della vendetta. Questa passione sterile è del resto
parte intima del carattere amletico, che nei suoi astratti furori, nella sua
purezza arrogante, nella sua furia misogina, nel suo idealismo puritano che
può diventare violenza brutale, nel suo arrovellarsi sull’onore e sulla virtù ha
qualcosa dell’Ippolito euripideo, la cui hybris è la sua stessa purezza. E
Amleto è affine anche a Edipo nel suo voler sapere, nella sua scelta di
passare dalla calma e luminosa apparenza (doxa) allo svelamento della
verità non apparente (alètheia), e cioè nel suo voler passare dall’inautentico
all’autentico, dall’esserci all’essere, il che gli riesce solo nella morte. Diceva
Hölderlin che «il re Edipo ha forse un occhio di troppo», e forse anche Amleto
lo ha, tormentato com’è dal richiamo dell’essere. La sua tragedia, anche al di
là della situazione creata dallo spettro, è ansia d’autentico, ma l’autentico si
può raggiungere solo fuori dall’esserci, nella morte-felicità. In questo senso la
fine di Amleto è un riscatto, accennato nelle celebrazioni finali di Orazio e di
Fortebraccio, sobri riconoscimenti del suo carisma di eroe solitario, tramite fra
i comuni mortali e il trascendente. Comunque la positivizzazione di Amleto
non è il messaggio di Shakespeare, e non è neanche nella visione
complessiva della tragedia, ma solo nei sottomondi di quei personaggi per cui
egli da morto diventa quasi un eroe divino (anèr theiòs), come suo padre per
lui e Lear per i sopravvissuti.