Page 10 - Shakespeare - Vol. 3
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Nei  suoi  goffi  distici  il  Re-Attore  comunica  una  sorta  di  desolata  sapienza
          tragica, facendosi anche lui coro di se stesso e tuttavia incapace di prestarsi
          aiuto:  l’uomo  si  crede  libero  e  capace  di  programmare  e  attuare  le  sue
          intenzioni, ma in realtà non conosce ciò che è e che sarà, né ciò che farà o

          che verrà dalle sue azioni. Tutto è dominato dall’ironia e visto come da un
          altissimo  occhio  ironico.  A  cominciare  dalla  terza  battuta  dell’opera  (Lunga
          vita al re!) fino a quel rasserenamento di Amleto nella fede in una speciale
          provvidenza, a pochi minuti dall’orrore finale.

          La tensione incessante è il contrassegno dell’esistenza eroica. Ma la massima
          che racchiude l’imperativo eroico è quella che il vecchio Fenice ha insegnato e
          ricorda ad Achille (Iliade, IX, 443): «essere dicitore di parole e operatore di
          opere».  Ora,  questo  è  ciò  che  l’eroe  tragico  fallisce  sempre,  la  massima

          eroica  per  lui  è  irrealizzabile.  Amleto  è  piuttosto  un  dicitore  di  opere  e
          facitore di parole. Anche per lui la tragedia si apre con un «che fare?» (I, iv,
          57) ed è seguita da autoanalisi e autolacerazione, come in tanti altri eroi di
          Shakespeare e dei greci, colpiti dal male di vivere e ingombri del peso di se

          stessi.  Ma  in  Amleto  appare  specialmente  sottolineata  una  sindrome  che
          tornerà ad  nauseam  nella  cultura  europea:  insicurezza,  paralisi,  sterile
          relativismo,  crisi  esistenziale,  vana  ricerca  dell’assoluto,  nausea  dell’io
          abominevole,  senso  di  essere  di  troppo,  depressione  e  malinconia,  senso

          pascaliano di essere pazzo tra i pazzi, di essere incomprensibile a se stesso e
          agli altri come gli altri lo sono per lui. Allora si affonda nella palude.
          Il mondo di Amleto è per metà quello di un folle attaccamento ai valori, la
          passione  per  il  prestigio  allo  stato  puro  (Hegel),  per  metà  quello  di

          Montaigne,  anzi  quello  del fool  che  facendo  il  pazzo  colpisce  per  la  sua
          pertinenza e smaschera gli altri e se stesso. Difatti Amleto è il «pazzo» del
          suo play, un buffone angoscioso perché facendo ridere toglie la felicità. Del
          resto  per  il  Rinascimento  la  felicità  non  è  più  un  valore  (Heller),  per

          Machiavelli è amorale, per Guicciardini immorale e da identificarsi col vizio,
          non con la virtù. Amleto è infelice perché la felicità nel mondo è falsa, è vera
          solo nella morte. E come poteva un personaggio che è tanto figlio del suo
          tempo − così vicino al suo autore, ci sia concesso di sospettare, che con lui il

          frame-breaking,  il  passaggio  dal  mondo  drammatico  a  quello  esterno  gli
          riesce  così  semplice  −,  come  poteva  non  essere  coinvolto  come  Don
          Chisciotte nel gran motivo rinascimentale della follia? Shakespeare fa della
          follia  presunta,  che  sarebbe  innecessaria  alla  sua  azione,  uno  degli  aspetti

          essenziali  e  inspiegabili  del  suo  eroe.  Ci  sono  in  Amleto  la  follia  lucida  e
          liberatoria,  la  follia  malinconica,  la  follia  violenta,  la  follia  sacrale  che
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