Page 5 - Shakespeare - Vol. 3
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PREFAZIONE
La leggenda e le fonti
La leggenda di Amlodhi (che in antico norvegese significa «deficiente») risale
almeno al secolo IX, e alla fine del secolo XII il danese Saxo Grammaticus la
espose nei libri III e IV della sua Historia Danica, stampata nel 1514. Saxo,
che forse ha presente la storia liviana di Lucio Giunio Bruto (anche brutus
vale «deficiente») che cacciò da Roma i Tarquini, racconta una sinistra saga
vichinga: Amleth(us), principe dello Jutland, per vendicare il padre Horwendil,
vassallo del re danese, ucciso dallo zio Fengo, il quale ha forzato la cognata
Gerutha a sposarlo, ricorre alla finta pazzia come espediente inevitabile per
sopravvivere (in Shakespeare non è più così) e con l’aiuto di un amico, di una
«sorella di latte» che Fengo aveva utilizzata per smascherarlo, e dalla stessa
madre Gerutha, riesce nel suo intento. Spedito in Inghilterra con una lettera
che ne ordina l’uccisione − è una situazione che si trova nel mito greco di
Bellerofonte − Amleth sfugge al tranello, sposa la figlia del re inglese, è
mandato in Scozia e vi sposa la regina, e tornato in patria con le due mogli si
vendica di Fengo e vi regna finché non è ucciso in battaglia da un altro zio e
nuovo re danese. Saxo racconta la storia con l’innocenza elementare e
anonima delle saghe, senza porsi dubbi, domande o problemi di colpa, senza
moralizzare i fatti e sentirne la tragicità. Questa vicenda, che in sé aveva
l’universalità dei miti (A. Barton), è ripresa nel Cinquecento dall’amico di
Margherita di Navarra, François de Belleforest, nel V volume delle sue
Histoires Tragiques (1570). In ossequio alla sua temperie lo scrittore francese
esercita sulla storia un continuo commento morale, con paralleli classici e
biblici e in una prospettiva universale ed edificante, rendendola irta di
problemi e aggiungendo alla figura del principe «dubbi, ritardi e rimproveri»
(Jenkins). Da guerriero primitivo Amleto diventa un eroe «malinconico» e
positivo, acquista un’aura cavalleresca nel perseguire l’onore e la gloria, e
una giustificazione per la sua vendetta che diventa «un tirannicidio», oltre
che una punizione dell’assassino del padre approvata dall’etica nobiliare e
giustificata dal Belleforest. Il quale scarica tutte le colpe sulla libidine
femminile − la regina è adultera, la sorella di latte sensuale e vogliosa, la
moglie scozzese infedele − e trova spiegazioni etico-culturali a quella remota
orribile vicenda nella perversità delle femmine e nella barbarie dei tempi