Page 1224 - Shakespeare - Vol. 3
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drammatici. La tragedia domestica, pur avvalendosi dell’importante
connessione coi luoghi pubblici di Venezia e di Cipro, si incentra così
sull’esplorazione di un groviglio d’anime, di volontà, pulsioni, vere e false
motivazioni, linguaggi e intimi pensieri, fra le più complesse di Shakespeare.
Il groviglio dei rapporti interiori determina e assorbe in sé le direttive
dell’azione, mutando in maniera originale gli scarni contorni della vicenda
ripresa da Cinthio. Il dato è anche importante perché è una delle prime volte
che il motivo della gelosia, usualmente sfruttato per trame comiche, viene
usato per una trama tragica.
Quanto l’azione è lineare, tanto sono contorti e aggrovigliati i rapporti fra
personaggi: è una delle prime «doppiezze», antinomie (o paradossi) della
tragedia, quasi una controcorrente rispetto al movimento lineare.
Nell’Atto I − prologo o protasi − la durata è «reale», sullo sfondo di una
Venezia notturna, inquieta negli spazi d’ombra e nei luoghi sontuosi del
potere. C’è un fatto a sorpresa − la fuga e il matrimonio segreto del Moro con
la bella veneziana − che Iago svela, rivelando contestualmente la sua
condizione di «malcontento», il suo risentimento e il suo malanimo perché
nella carriera gli è stato preferito Cassio: è un servo che ora serve se stesso e
i propri fini, «non è quel che è», né ciò che sembra. Per gli altri, meglio se
non fosse Iago (I, i, 42-65). Malanimo e perfidia scelgono prima la via che è
stata detta dell’intrigo pubblico (e infatti Venezia è luogo del pubblico e del
sociale, della civiltà e del potere, della cultura e dell’opulenza): screditare e
rovinare Otello, e fin da principio Iago attua il suo proposito (in contrasto con
le forbite parole del gentiluomo Roderigo, I, i, 120-140) con l’arma
dell’innuendo e dell’insinuazione, accusando e tirandosi indietro (I, i, 144-
147), adottando linguaggio e immagini da caserma, visualizzando con
compiacimento gli aspetti bestiali della congiunzione carnale (I, i, 120-140)
ecc. Alle subdole accuse dell’ipocrita che maschera ciò che realmente è («I
lack iniquity...», II, iii, 3) e suggerirà costantemente ciò che non è, Otello
risponde ignaro con l’eloquenza dell’eroe rinascimentale, del «barbaro» di
stirpe regale acculturatosi a Venezia, di cui ha assorbito ed esalta la «virtù».
C’è nobiltà nella difesa di sé (I, iii, 76-94 e 129-170) che Otello pronuncia
dinanzi al Doge, provocato da Brabanzio, il Magnifico veneziano che perde
invece ogni ritegno e misura (I, ii, 62-81; iii, 60-65); ma c’è anche, com’è
stato variamente notato, un tocco di teatralità, di self-dramatization, un voler
porsi costantemente sul piedestallo (I, ii, 229-239, 260-274), quasi a
bilanciare l’insicurezza delle origini e l’estraniamento dalla società veneziana.
Più solida di tutti − ché anche il Doge, con le sue ridicole «sentenze» a rima