Page 128 - Shakespeare - Vol. 2
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[Il giardino nell’abbazia di Swinstead.]
Entrano il Principe Enrico, Salisbury e Bigot.
ENRICO
È troppo tardi: la vita di tutto il suo sangue
è corrotta dall’infezione, e il suo puro cervello,
che alcuni ritengono la fragile casa dell’anima,
preannuncia, coi suoi oziosi vaneggiamenti,
la fine della condizione mortale.
Entra Pembroke.
PEMBROKE
Sua Altezza parla ancora, ed è convinto
che portato all’aria aperta si calmerebbe il bruciore
del crudele veleno che l’assale.
ENRICO
Fatelo portare qui in giardino.
Delira ancora?
[Esce Bigot.]
PEMBROKE
È più calmo di quando l’avete lasciato;
proprio un attimo fa cantava.
ENRICO
Oh vanità della malattia! le sofferenze più terribili
se continuano indefinitamente non si avvertono più.
La morte, dopo aver predato le parti esterne, invisibile
le lascia e porta adesso il suo assedio alla mente,
pungendola e ferendola con molte legioni
di strane fantasie che, affollandosi e spingendosi
per entrare in quell’ultimo rifugio, s’annullano a vicenda.
È strano che la morte debba cantare.
Io sono il piccolo di questo pallido cigno languente
che canta un inno doloroso alla propria morte,