Page 25 - Galileo Galilei - Lettere copernicane. Sentenza e abiura
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Padre Benedetto Castelli (1578-1643), monaco benedettino,
fu discepolo e collaboratore di Galileo.
Quando venne scritta questa lettera rivestiva presso lo
Studio di Pisa l’incarico di lettore di matematica; dieci anni più
tardi sarebbe stato chiamato alla Sapienza di Roma, da dove si
diffuse la sua fama quale inventore di una nuova scienza,
l’idraulica. Dall’attacco della missiva si apprende che
Benedetto Castelli aveva chiesto al gentiluomo fiorentino
Niccolò Arrighetti, accademico della Crusca, di riferire al
Maestro i particolari di una disputa sorta alla Corte del
granduca di Toscana Cosimo II (presenti anche sua moglie e
sua madre Cristina di Lorena) sul modo di conciliare le Sacre
Scritture con le nuove scoperte relative ai movimenti della
Terra.
Poco più di un anno dopo la stesura di questa lettera, il 7
febbraio 1615, il domenicano Niccolò Lorini da Firenze ne
inoltrò una copia al Sant’Uffizio di Roma accompagnandola
con la dichiarazione: «… a giudizio di tutti questi nostri Padri
di questo religiosissimo convento di San Marco, vi sono dentro
molte proposizioni che ci paiono o sospette o temerarie».
Sospetto e accusa di temerarietà, contrariamente a quanto
Galileo dovette credere in buona fede per lunghi anni
ostinandosi a difendere in questo senso la sua posizione, non
riguardavano evidentemente il contenuto di una ipotesi
astronomica nuova (che per altro manteneva ancora
l’immagine dei cieli mobili), ma la pretesa di autonomia del
sapere e della ricerca scientifica rispetto all’autorità dogmatica
della Chiesa.
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