Page 43 - Dizionario di Filosofia
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all’insostenibile  assurdità  di  una  concezione  del  mondo  che  possiamo  chiamare

          “teologica”, concezione che domina tutta la filosofia teistica dell’occidente. »
                Abbiamo uno sconfinamento categoriale dal basso quando i metodi e i criteri
          operativi delle scienze fisicalistiche o biologiche, ad esempio, riducono l’uomo allo
          statuto  ontologico  di  un  ente  naturalistico  qualsiasi  senza  rispettare  il  livello
          categoriale nuovo e specifico. Lo sconfinamento categoriale dall’alto è il tentativo
          opposto di proiettare nei processi fisici chimici o biologici i nessi categoriali che

          trovano  legittimo  impiego  nella  interpretazione  dei  fenomeni  sociali,  culturali  o  «
          spirituali ». La sentinella che impedisce questi sconfinamenti e queste prevaricazioni
          di  campo  non  può  essere  che  una  filosofia  rispettosa  delle  competenze
          giurisdizionali e sollecita nel salvaguardare la varietà e la eterogeneità degli eventi
          che hanno luogo nel mondo della natura e dell’uomo.
                Per questo motivo la filosofia chiede alla sociologia, all’antropologia culturale
          e sociale, alle scienze storiche e linguistiche di non travasare in recipienti impropri

          il buon vino delle loro più recenti acquisizioni nella conoscenza. Il merito di uomini
          come  Durkheim,  Max  Weber,  Pareto,  Mosca,  Parsons  o  Merton  è  stato  quello  di
          descriverci l’uomo come socius alle prese con la statica e con la dinamica sociale,
          con  i  fenomeni  polari  e  antagonistici  dell’integrazione  e  del  conflitto,  del
          comportamento legalitario e del comportamento anomico. L’antropologia filosofica
          sa che l’homo sociologicus non è tutto l’uomo e si guarda bene dal sostituire la parte

          al tutto, lo schema scientifico alla realtà vivente, ma sa anche di non poter surrogare
          con postulati generici ricerche concrete e specifiche.
                Uguale  discorso  vale  per  le  ricerche  antropologiche  di  uomini  come  Boas,
          Kröber, Malinowski, Radclifïe-Brown, Evans-Pritchard, Lévy-Bruhl, Mauss, Lévy-
          Strauss.  Queste  ricerche  si  risolvono  in  una  critica  delle  nostre  illusioni
          etnocentriche e in un invito alla tolleranza e alla comprensione di stili di vita che non
          possiamo  ritenere,  aprioristicamente,  subalterni  ai  nostri  modelli  culturali.  Il

          darwinismo  sociale,  figlio  spurio  dell’evoluzionismo,  è  spesso  caduto  in  questo
          errore prospettico di prefigurare linee o stadi obbligati di sviluppo o di progresso
          nell’itinerario delle culture, affidando alla tecnologia la funzione di leva unica del
          corso ascendente della storia. Gli indirizzi antropologici più recenti, con le loro forti
          istanze strutturalistiche e funzionalistiche, scoprono nella vastità e nella divergenza

          del  fenomeno  umano,  che  avevamo  guardato  da  prospettive  troppo  anguste,
          concordanze di fondo insospettate, identità e continuità emergenti nella frastagliata e
          policroma linea del divenire umano. L’uomo è, insieme, uno e diverso, continuo e
          discontinuo, omogeneo ed eterogeneo. È questo il paradosso categoriale e l’aporia
          costitutiva  dell’ente  umano  come  generatore  di  fenomeni  sociali  e  culturali.
          L’insegnamento del relativismo culturale consiste nell’accentuare un polo di questo
          paradosso e di questa aporia. Esso non sostiene l’irriducibilità e l’impermeabilità
          dei diversi fenomeni sociali e culturali. Sollecita piuttosto la fine dell’etnocentrismo,

          l’apertura  critica  più  generosa  verso  il  diverso  e  verso  l’altro.  Il  bersaglio  del
          relativismo  culturale  è  l’uomo  che  si  rifugia  in  un  atteggiamento  ideologicamente
          fanatico e settario.
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