Page 250 - Storia della Russia
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La Perestrojka e la fine dell’URSS: 1985-1991
Gorbačëv e il «nuovo pensiero»
Nel 1985 nessuno (all’est o all’ovest) pensava al collasso dell’Unione Sovietica, casomai a
una sua riforma. Alla morte di Černenko il Politbjuro accettò finalmente come segretario
generale un rappresentante della nuova generazione: il protetto di Andropov, Michail
Gorbačëv. Figlio di contadini di Stavropol’, nella Russia meridionale, Gorbačëv aveva
studiato legge all’Università statale di Mosca, dove aveva incontrato anche sua moglie: la
legalità sarebbe divenuta per lui una questione cruciale. A Stavropol’, ebbe una carriera
politica sfolgorante e nel 1978 venne chiamato a Mosca per occuparsi dell’agricoltura,
finché nel marzo del 1985, all’età di 54 anni, succedette a Černenko. Il nuovo segretario
generale era un comunista convinto che voleva mantenere in vita il sistema sovietico. Era
perfettamente consapevole della necessità di una riforma profonda, anche se non riuscì a
prevederne le potenziali conseguenze economiche e politiche. Godeva dell’appoggio dei
riformisti: la maggioranza del Comitato centrale, i più alti funzionari, i capi del KGB e
dell’esercito accettavano ormai tutti l’urgenza di un cambiamento. Ma nel cercare
soluzioni nuove ai problemi sovietici e nel rifiutare categoricamente un ritorno alla
repressione violenta, in patria o all’estero, Gorbačëv si dimostrò più radicale di molti suoi
sostenitori. Per quanto riguarda la politica estera, si rese conto che un’infinita acquisizione
di nuove armi era controproducente e generava un’ostilità reciproca capace di mettere a
repentaglio la sicurezza generale e giustificare una insostenibile spirale di corsa agli
armamenti. Cercò quindi di distaccarsi dalla competizione ideologica, puntando sul
disarmo e sulla cooperazione con le altre grandi potenze. Nel 1985 partecipò a Ginevra a
un summit russo-americano con il presidente Ronald Reagan (l’ultimo risaliva al 1979), il
primo di una serie che portò a diversi accordi sulla riduzione degli armamenti. Nel 1988
pose fine al coinvolgimento sovietico in Afghanistan; anche le relazioni con la Cina
migliorarono. Quando, nel 1989, le pressioni politiche giunsero a una vera e propria crisi
nell’«impero esterno», Gorbačëv fece sapere che il Cremlino non sarebbe intervenuto con
la forza: i governi comunisti caddero uno dopo l’altro. Questa presa di posizione lo rese
molto popolare a livello internazionale (nel 1990 ricevette il premio Nobel per la pace) e
all’inizio anche in patria; ma il crescente caos interno e la perdita dell’«impero esterno»,
nonché del prestigio sovietico, gli alienarono l’opinione pubblica. Questa mancanza di
consenso andò ad aggiungersi alle tante difficoltà degli ultimi anni del suo governo.
In patria, il rifiuto di Gorbačëv di autorizzare una repressione militare facilitò il crollo
dell’Unione, sebbene nel 1985 egli non avesse ancora un’idea chiara del destino che
attendeva l’Urss. Mentre portava avanti le politiche di Andropov per la disciplina e contro
la corruzione, egli formò una nuova squadra per sostituire l’apparato e il Politbjuro avuti
in eredità da Brežnev; tra gli altri fu fatto venire da Sverdlovsk Boris El’cin, in qualità di
primo segretario del partito della città di Mosca e membro candidato del Politbjuro. Gli
appelli per migliorare l’economia «accelerando» i processi produttivi non ottennero molti
risultati. La sua campagna contro l’alcolismo, ideata da Egor Ligacëv, suo vice a tutti gli
effetti, affrontava un problema sociale reale, ma ebbe conseguenze impreviste: incoraggiò
la distillazione illegale, diminuì notevolmente le entrate statali, e in alcune zone la
mentalità stalinista portò alla completa distruzione di preziosi vigneti. L’umorismo
popolare trasformò il «segretario generale (generalnyj)» nel «segretario dell’acqua