Page 27 - Nietzsche - Genealogia della morale
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negato dentro di me, radicalmente, ogni frase, ogni deduzione, come questo libro; e purtuttavia

      senza fastidio e senza insofferenza. Nell’opera cui allora lavoravo e che ho citato prima, mi
      sono  riferito,  occasionalmente  e  non,  a  principi  di  quel  libro,  non  confutandoli  –  le
      confutazioni non mi riguardano! – ma come è proprio di uno spirito positivo, ponendo al posto
      dell’improbabile  qualcosa  di  più  probabile  e,  in  certi  casi,  in  luogo  di  un  errore  un  altro
      errore.  Come  detto,  allora,  stavo  portando  alla  luce  per  la  prima  volta  quelle  ipotesi
      genealogiche  cui  sono  dedicati  questi  saggi,  in  maniera  goffa,  cosa  che  in  fondo  amerei
      nascondere a me stesso, ancora impacciata, senza un linguaggio mio adatto a questo tipo di

      argomenti, e con molteplici esitazioni e ripetizioni. Si veda specialmente quello che dico sulla
      doppia preistoria del bene e del male (cioè a partire dalla sfera dei nobili e da quella degli
      schiavi)  in  «Umano,  troppo  umano»  (I,  p.  51);  come  anche  (pp.  119  sgg.)  sul  valore  e
      sull’origine della morale ascetica; o ancora (pp. 78, 82, II, 35,) sulla «eticità del costume»,
      quella specie di morale, molto più antica e primitiva che si allontana toto coelo dal criterio di
      valutazione  altruistico  (in  cui  il  dottor  Rée,  come  tutti  gli  altri  genealogisti  inglesi  della

      morale vede il criterio di valutazione morale in sé); o anche p. 74, in «Viandante», (p. 29), in
      «Aurora»  (p.  99),  sull’origine  della  giustizia  come  compromesso  tra  potenti  quasi  uguali
      (equilibrio come presupposto di ogni patto e quindi di ogni diritto) e ancora sull’origine della
      pena in «Viandante» (pp. 25 e 34), per cui il fine terroristico non è né essenziale né originario
      (come  crede  il  dottor  Rée  –  esso  è  piuttosto  indotto,  in  certe  circostanze,  e  sempre  come
      qualcosa di accessorio, di aggregato).


         5.
         In fondo proprio allora mi stava a cuore una cosa molto più importante di un complesso di
      ipotesi mie o di altri sull’origine della morale (o, per essere più esatti, quest’ultima cosa solo
      in relazione a un fine per il quale essa è un mezzo tra molti altri). Si trattava, per me, del
      valore  della  morale,  e  a  questo  proposito  potevo  confrontarmi  quasi  solo  col  mio  grande

      maestro Schopenhauer, al quale, come a un contemporaneo, si rivolge quel libro, con la sua
      passione  e  con  la  sua  nascosta  contraddizione  (–  infatti  anche  quel  libro  è  una  «opera
      polemica»).  Si  trattava,  in  special  modo,  del  valore  del  «non  egoistico»,  degli  istinti  di
      compassione,  negazione  di  sé  e  autosacrificio  che  proprio  Schopenhauer  aveva  ricoperto
      d’oro, divinizzato e reso ultramondani tanto a lungo da farne gli unici «valori in sé», sulla cui
      base egli disse no alla vita e anche a se stesso. Ma proprio contro questi istinti si esprimeva
      in  me  una  diffidenza  sempre  più  radicata,  uno  scetticismo  che  scendeva  sempre  più  in
      profondità! Proprio qui vedevo il grande pericolo per l’umanità, la sua più sublime malia e

      seduzione – verso che cosa mai? verso il nulla? – proprio in ciò vedevo l’inizio della fine,
      l’arresto, la stanchezza rivolta al passato – la volontà che si rivolta contro la vita, la malattia
      finale che si annunzia con dolce malinconia: vidi nella morale della compassione in continua
      avanzata, e che colpiva anche i filosofi rendendoli malati, il sintomo più sinistro della nostra
      cultura  europea  ormai  essa  stessa  sinistra,  la  sua  tortuosa  peregrinazione  verso  un  nuovo

      buddhismo  –  un  buddhismo  europeo?  il...  nichilismo?...  Questa  moderna  predilezione  e
      sopravvalutazione  da  parte  dei  filosofi  della  compassione  è,  in  realtà,  qualcosa  di  nuovo:
      infatti, fino ad oggi, i filosofi erano stati concordi proprio sul non valore della compassione.
      Mi limito a citare Platone, Spinoza, Larochefoucauld e Kant, quattro spiriti tanto diversi tra
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